GISULFO I, OTTAVO DUCA DI BENEVENTO

di Alessio Fragnito e Vincenzo Antonio Grella, soci dell’Associazione Benevento Longobarda

 

“Morto Grimoaldo II, fu eletto duca suo fratello Gisulfo, che governò Benevento per diciassette anni e che sposò Winiperga, dalla quale nacque Romualdo1”.

Come abbiamo visto nel precedente saggio, il ducato di Grimoaldo II fu molto breve, e per sopperire alla prematura dipartita del Duca, l’assemblea dei guerrieri beneventani consegnò il potere al fratello Gisulfo. Essendo troppo giovane per regnare venne sottoposto alla reggenza della madre Teuderada.2 Si prolungava dunque il governo di quella che possiamo definire “la dinastia friulana del ducato beneventano”, una sorta di versione meridionale della dinastia bavarese, a cui si deve la conversione al cattolicesimo dei longobardi beneventani, la costruzione o il restauro di edifici di culto cattolici, il cambio di atteggiamento nei confronti delle popolazioni autoctone, profondamente cattoliche, e il consolidamento di un sistema di potere che si basava sui gastaldi e altri amministratori minori che consideravano Benevento e non Pavia la propria capitale.

Il legame con la dinastia friulana era del resto evidenziato dallo stesso nome del nuovo duca: Gisulfo, come il primo duca del Friuli, nipote del Re Alboino, appartenente quindi ad un lignaggio di tutto rispetto, che consentiva ai longobardi beneventani di rivendicare una discendenza “eroica”, che rimandava all’identità originaria del popolo dalle lunghe barbe. Gisulfo I duca del Friuli, della stirpe dei Gausi, era il nonno di Grimoaldo I, quindi era il trisavolo di Gisulfo I duca di Benevento, e questa “friulanità” era stata rinsaldata con il matrimonio di Romualdo, il figlio di Grimoaldo I e padre di Gisulfo e Grimoaldo II, con Teuderada, la cattolica figlia di Lupo, potente duca del Friuli e uomo fidatissimo di Grimoaldo I, almeno fino a quando non lo tradì in seguito alla sua discesa a Benevento nel 663.

Tale dinastia era incarnata da Teuderada, la quale, come detto, sopravvisse al marito e al primo figlio e governò in vece del secondo figlio fin a quando Gisulfo raggiunse la maggiore età, che stando alle leggi di Rotari era stabilita al compimento dei 12 anni di età, ma che pochi anni dopo venne portata a 18 anni dalle nuove leggi di Liutprando. Trattandosi del governo di un vasto ducato, propendiamo per ritenere che la maggior età che Gisulfo dovesse raggiungere fossero i 18 anni e non i 12.

I primi anni del ducato di Gisulfo I non sono molto documentati, tuttavia vediamo come egli riprese la politica espansionistica del padre, stavolta ai danni del Ducato Romano. Questa entità regionale era territorio bizantino, ma di fatto ad esercitare il potere era il patriarca romano ossia il Papa. I conflitti tra Longobardi Beneventani e Papi diverrano sempre più aspri e scandiranno i futuri conflitti della penisola. Mentre il nord viveva la complessa dialettica conflittuale tra Duchi e Re, l’aristocrazia guerriera Beneventana era in piena espansione e rafforzamento. Gli intrepidi giovani di Romualdo erano divenuti signori locali a capo di potenti “comitati” armati. Tuttavia questa potenza poggiava le basi sul possesso della terra e quindi necessitava di continue espansioni. Dato che la Puglia era stata ormai conquistata tutta ad eccezione di Otranto, la direttrice della conquista quindi non poteva che essere la Campania, sopratutto le fertili terre della valle del Liri (oggi appartenenti al basso Lazio).

Rispetto alle conquiste operate da Gisulfo, Paolo Diacono afferma che:

In quest’epoca Gisulfo, duca di Benevento, conquistò la città romana di Sora, e le fortezze di Arpino e Arce. Lo stesso Gisulfo, ai tempi di papa Giovanni, invase con tutte le sue forze la Campania, facendo molti prigionieri e saccheggiando tutto. Avanzò fino a un luogo chiamato Horrea senza che nessuno potesse fermarlo. Finalmente il pontefice mandò da Gisulfo i suoi sacerdoti con ricchi doni apostolici e lo convinse a liberare tutti i prigionieri e a rientrare nei suoi confini con l’esercito3”.

In realtà la fonte principale di Paolo Diacono è il Liber Pontificalis, che il monaco longobardo cita testualmente. Il pontefice in questione è Papa Giovanni VI, che resse il soglio di San Pietro dall’ottobre del 701 fino all’11 gennaio del 705, per cui l’invasione del Ducato Romano deve essersi realizzata tra il 702 e il 704.

A dire il vero il Liber Pontificalis non fa cenno alle città laziali ma cita solo Horrea, che in latino significa granai, o magazzini, depositi, per cui è probabile che il Duca Beneventano fosse giunto a conquistare un territorio che garantiva gli approvvigionamenti alla città di Roma, costringendo il Papa ad inviare molti sacerdoti e soprattutto molti doni apostolici per indurlo a ritornare indietro nei suoi confini, i quali erano, ormai, quelli definiti da fiume Liri-Garigliano, e che comprendevano quindi le città laziali recentemente conquistate. Ciò significa che, appunto, la conquista di queste città e la conseguente fondazione di un gastaldato, dovevano essere precedenti all’invasione dei territori di pertinenza del Ducato Romano.

L’avanzata inarrestabile di Gisulfo, testimoniava la strabiliante forza raggiunta dal ducato beneventano e dall’altro canto l’incapacità atavica dei bizantini di riuscire a proteggere i propri territori. L’offensiva beneventana verso le città dovette avvenire prima della salita al soglio pontificio Giovanni VI.4 Non abbiamo notizie particolare sugli assedi di Arpino e Arce5, né della conquista di Sora6, molto probabilmente l’attacco di Gisulfo fu talmente fulmineo da spezzare le poche difese del territorio Romano. In ogni modo le tre città, che si trovano nei pressi del fiume Liri, vennero accorpate in un unico Gastaldato con capoluogo Sora. Per quanto riguarda gli altri due insediamenti, infatti, come suggerisce Paolo Diacono, doveva trattarsi di semplici “fortezze”, ovvero di presidi militari con scarsa presenza di abitazioni civili. Più volte, infatti, gli storici hanno pensato che Gisulfo avesse conquistato Rocca d’Arce7 piuttosto che Arce stessa. Il castello di Rocca d’Arce, infatti, è un avamposto militare di enorme importanza e nella Chronica Sancti Benedicti Cassinensis si afferma che da questa Rocca il duca Gisulfo ammirò il monastero di Montecassino e decise di restaurarlo (si tratta in realtà di Gisulfo II, che governerà circa 30 anni dopo).

Una volta rinsaldate le difese di tali avamposti, la tattica successiva seguita dalle truppe del Duca Gisulfo fu la classica “guerra guerreggiata” che diventerà particolarmente famosa nel corso del medioevo. Molto probabilmente in questa seconda fase l’obbiettivo furono i possidenti romani, in particolare cio che rimaneva della classe senatoria italica e questo spiegherebbe anche il perchè il Papa avesse tutta questa premura a riscattarli. In queste righe si può notare come il patriarca di Roma agisse come un autorità territoriale senza l’ausilio di nessuna carica del potere statale bizantino. Paolo Diacono non sembra particolarmente scandalizzato dall’azione del duca Gisulfo che, benchè cattolico, si scaglia alla conquista dei territori del ducato romano arrivando a valicare il confine del Liri-Garigliano. Di fatto i territori appena conquistati avrebbero costituito la base economica per arricchire la rampante aristocrazia militare dei longobardi di Benevento. Dato che il Diacono parla del ritiro completo dell’esercito beneventano “nei suoi confini”, ne consegue che le terre appena conquistate fossero ormai considerate parte integrante del Ducato di Benevento, per cui siamo orientati a ritenere la conquista di Sora e degli avamposti militari di Rocca d’Arce e di Arpino antecendenti alla salita al soglio pontificio di Giovanni VI, quindi prima dell’ottobre 701.

Significativo è che questa volta il Papa per convincere il Duca beneventano ad abbandonare il Ducato Romano utilizzi dei sacerdoti e dei doni apostolici, essendo ormai chiaro che anche i longobardi beneventani sono del tutto cattolici. Ad accontentare gli eserciti di Gisulfo I, probabilmente saranno stati anche e soprattutto i riscatti dei tanti prigionieri fatti durante l’avanzata: si tratta con ogni probabilità di possessores, ovvero di proprietari terrieri capaci di pagare ingenti somme per la propria vita. Questa conflittualità col Papato, risolta comunque alla fine in maniera diplomatica, ci fa pensare che i longobardi beneventani, pur dichiarandosi cattolici, non si riconoscessero propriamente nella guida spirituale del patriarca di Roma ma seguissero di più il clero locale, arrivando in un certo senso a “competere” anche con il Papa stesso in quanto a “cattolicità”. Abbiamo infatti già parlato della diffusione del cattolicesimo e della costruzione o il restauro di luoghi di culto cattolico da parte della dinastia regnante a Benevento, qui per comprendere ancor meglio il contesto, basterà ricordare che durante il ducato di Gisulfo si ha menzione di un vescovo beneventano chiamato Giovanni solo mediante la descrizione contenuta nel Chronicon Beneventanum di Falcone Beneventano, ma nessun cenno a questo vescovo ci proviene dagli archivi vaticani. Tale vescovo venne considerato santo o beato nella cronachistica successiva in quanto Falcone Beneventano racconta che il 15 maggio 1119 il vescovo di allora presentò diversi corpi e reliquie al popolo per farli venerare e tra questi vi era anche il corpo del ventunesimo vescovo beneventano, chiamato appunto Beato Giovanni, il quale rimase in carica per 33 anni, quindi dalla morte di San Barbato, avvenuta intorno al 682/683, fino al 715/7168. Si trattava quindi di un vescovo che non sembra avere rapporti con il Papa, visto che non ci giunge nessuna notizia di lui al di fuori della cronaca locale, ma che invece si rapportava al suo territorio in maniera esclusiva tanto che ancora nel XII secolo era considerato “beato” dal popolo beneventano. In sostanza questo dimostra che i Duchi beneventani riuscivano a competere con lo stesso Papa non solo militarmente ma anche sul piano ideologico, mediante una sorta di “autonomia religiosa” che si accompagnava all’autonomia politica e che si materializzava mediante l’edificazione di numerosi edifici sacri, attività che vedeva la duchessa Teuderada come principale protagonista.

E’ infatti sotto il ducato di Gisulfo che viene registrata la fondazione del monastero di San Vincenzo al Volturno, che costituirà un punto di riferimento fondamentale del monachesimo altomedievale e sarà al centro di numerose vicende politiche nei secoli successivi.

La Storia del Monastero viene raccontata nel Chronicon Vulturnense, redatto nel XII secolo, che contiene un prologo più antico, risalente alla seconda metà dell’VIII secolo, conosciuto come Autperti Vita Paldonis, Tatonis et Tasonis Vulturnensium, e che ci fornisce informazioni di fondamentale importanza per la ricostruzione della storia del mezzogiorno longobardo. In questo racconto, redatto dall’abate Autperto tra il 777 e il 778, scopriamo che Paldo, Tato e Taso, tre giovani longobardi appartenenti all’alta nobiltà beneventana, desiderosi di intraprendere la vita monastica, intorno al 703 partono per la Gallia, ovvero si dirigono verso il Regno dei Franchi. Durante il loro viaggio sostano presso l’Abbazia di Farfa, dove vengono accolti dall’abate Tommaso di Maurienne, di origini franche, il quale gli racconta il suo viaggio di pellegrinaggio a Gerusalemme, dove si recò in preghiera presso il Santo Sepolcro e lì ricevette l’apparizione della Vergine Maria che gli chiese di tornare sui suoi passi per restaurare un monastero abbandonato dedicato al suo culto, situato nel centro Italia, nella regione ancora oggi chiamata Sabina, che era appunto dove si trovava il monastero nel quale erano stati accolti. Durante il loro colloquio l’abate Tommaso a sua volta chiede ai tre nobili beneventani di tornare indietro, dicendogli:

Vi è un luogo, o dilettissimi figli, nel quale desidero che andiate, nelle regioni del Sannio, sulla riva del fiume Volturno a circa un miglio dalla sorgente. In questo luogo si trova un oratorio consacrato al nome di Vincenzo, martire di Cristo: da entrambe le parti del fiume vi è una selva foltissima, nella quale vi sono solo il rifugio di belve feroci e i nascondigli dei ladri. Ma il Signore vi conserverà illesi in quello stesso luogo, e per tutti coloro che compiono il cammino, lo renderà sicuro e tranquillo dal timore dei ladroni e, infine, distrutti i cespugli e gli sterpi, farà abbondare alberi da frutto. Andate, o figli, andate e rimanete in quel luogo senza timore9

Notiamo, in questo racconto, come il pellegrinaggio a scopo religioso fosse molto attivo, per cui non ci si meraviglia che un franco si rechi in medio oriente e tre beneventani si stiano recando in terra d’oltralpe. L’abbazia di Farfa si trova a soli 40 km da Roma, nell’attuale Comune di Fara in Sabina, le cui origini longobarde trapelano inequivocabilmente dal nome stesso, e sebbene sia ubicata in un luogo di non facile accesso, si trovava non molto distante dall’antica via Cassia, che doveva essere ancora in uso, almeno a giudicare dal fatto che persone dirette o provenienti dalla Francia si trovano a passare in questi luoghi.

Come è capitato a lui stesso nel caso della apparizione mariana, l’abate Tommaso esorta i tre giovani a recuperare un antico luogo di culto, dedicato al martire San Vincenzo, caduto purtroppo in abbandono come era accaduto alla stessa abbazia di Farfa. Maggiori notizie su questo oratorio dedicato a San Vincenzo, ci vengono sempre dal Chronicon ed in particolare da un secondo prologo redatto dal presbitero Pietro e da un altro testo ivi contenuto, secondo il quale l’oratorio venne fondato addirittura da Costantino in persona mentre si recava a Bisanzio per gettare le fondamenta della futura Costantinopoli, ed in effetti il culto del martire spagnolo era molto diffuso nei primi secoli di cristianizzazione del mediterraneo, in particolare nella penisola iberica.

In base al racconto, dunque, fin dalla sua fondazione l’abbazia di San Vincenzo al Volturno era strettamente legata all’abbazia di Farfa, come del resto ci suggerisce un altro testo composto in ambiente monastico, la Constructio Monasteri Farfensis, che narra appunto la fondazione del monastero di Farfa, nelle cui pagine troviamo scritto che l’abate Tommaso, non solo indicò il luogo esatto ai tre longobardi beneventani, ma seguì l’atto di fondazione del monastero da protagonista. Secondo questo testo, risalente già al IX secolo, Tommaso in persona si reca dal Duca di Benevento Gisulfo per chiedergli in concessione il terreno sul quale far erigere il monastero e sovraintende ai lavori di costruzione, aiutato ovviamente dai tre nobili, i quali provvedono al finanziamento economico. Ai tre giovani Tato, Taso e Paldo, l’abate di Farfa fornisce anche le indicazioni “architettoniche” su come dividere gli spazi interni10. La fine della dipendenza da Farfa sarebbe iniziata solo nel 739, alla morte dell’ultimo dei tre fondatori, i quali furono anche i primi tre abati di San Vincenzo al Volturno.

In realtà questi racconti non sono del tutto scevri da interessi politici di parte: l’abate Autperto, infatti, era di orgini franca e coprì tale carica per soli due anni, essendo poi costretto a dimettersi e a lasciare San Vincenzo per via delle sue “simpatie franche” in un periodo in cui la contrapposizione tra franchi e longobardi era degenerata in guerra aperta. Autperto, infatti, svolgeva la funzione di cancelliere di Carlo Magno, il quale nella pasqua del 774 si era recato a Roma per far benedire il suo esercito dal Papa e riprendere l’assedio di Pavia con maggiore vigore. Dopo aver sottomesso Pavia e aver ottenuto la resa di Spoleto, il re franco invia il suo fido cancelliere Autperto nel Ducato di Benevento per una missione “diplomatica”, ovvero per sanare una controversia tra il duca di Spoleto e quello di Benevento, ma che in realtà aveva tutti i contorni di una vasta operazione di infiltraggio tra i longobardi beneventani. Autperto, infatti, insieme ad altri franchi, si unì al monastero di San Vincenzo in quegli anni (775-776) e il loro numero doveva essere molto consistente, visto che poi riuscirono ad eleggere proprio Autperto come abate11. Ma l’infiltrato franco, come detto, venne esautorato ben presto e dovette rifugiarsi presso il duca di Spoleto, ormai alleato fedele dei franchi. In quel periodo, infatti, all’interno dell’abbazia si assisteva da una riproposizione in chiave ecclesiastica del conflitto tra franchi e longobardi. Basterà ricordare che dopo Autperto verrà nominato abate un certo Potone, chiaramente un rappresentante della fazione longobarda, il quale nel 782 venne denunciato dalla fazione franca a Carlo Magno perchè accusato di non aver ricordato il nome del sovrano franco durante le preghiere. Al processo, che si svolgerà a Roma dinanzi al Papa, viene chiamato a testimoniare anche Autperto, il quale però muore durante il viaggio e alla fine Potone verrà assolto dal pontefice Adriano I, con grande sdegno di Carlo Magno.

In ogni modo l’abate Autperto era senza dubbio mal visto dai longobardi beneventani, i quali esercitavano la protezione sul monastero fin dai tempi della sua fondazione e in particolare il suo operato doveva essere malvisto da Arechi II, che intorno al 760 aveva concesso al monastero nuovi terreni con un proprio atto di donazione e che nel 774 si era proclamato “principe” di tutti i longobardi, in contrapposizione a Carlo Magno, proclamatosi “re dei franchi e dei longobardi”.

Non a caso, infatti, nel suo prologo Autperto non fa nessun cenno ai duchi di Benevento, quasi a voler nascondere il fatto che furono loro a concedere il vasto territorio di pertinenza del monastero ai tre giovani beneventani, i quali, a detta dell’abate franco, erano intenzionati a seguire la vita monastica proprio in Francia, e non in Italia. Inoltre, sempre nel Chronicon, troviamo la narrazione di una visita dello stesso Carlo Magno all’abbazia, alla quale rinnova le concessioni terriere, ergendola ad “abbazia imperiale”, titolo che viene evidenziato anche dal racconto di Costantino, che viene inserito nel Chronicon con il preciso scopo di far capire al lettore che le origini “imperiali” dell’abbazia erano antichissime, risalenti addirittura al primo imperatore cristiano.

In effetti l’abbazia venne considerata di fondamentale importanza per i tutti i governanti della regione, i quali elargirono sempre grandi donazioni, ed infatti nei secoli successivi la costruzione originaria fu ingrandita ed arricchita di ben nove chiese, una imponente basilica di San Vincenzo Maggiore e di alloggi per persone di alto rango, come appunto re, imperatori, duchi.

Nel Chronicon troviamo anche l’atto di donazione di Gisulfo I, riconosciuto come falso da ogni storico, ma che rimanda comunque ad un atto originario che doveva necessariamente esistere. La cosa che più ci interessa, infatti, è sottolineare come la zona che viene concessa dal duca beneventano ai tre giovani suoi concittadini, si trova in una zona molto prossima alle città di recente conquista longobarda, ovvero Arce, Sora ed Arpino, annesse al Ducato di Benevento proprio in questi anni da Gisulfo I. Si trattava, in sostanza, di una ripetizione di quello che abbiamo visto nella conquista della Puglia: ad una conquista militare, si affianca una conquista “religiosa”, in cui la principale protagonista rimane Teuderada, madre di Gisulfo, la quale finanzia opere di restauro di luoghi di culto precedentemente abbandonati o desiderosi di imponenti ricostruzioni. La costruzione ex novo o il ripristino di luoghi di culto, sebbene fosse motivata principalmente da una viva fede che la duchessa Teuderada incarna e trasmette ai duchi suoi figli, otteneva anche l’effetto di far guadagnare alla classe governante longobarda le simpatie del popolo cattolico, ovvero delle popolazioni autoctone sottomesse dagli eserciti beneventani. Inoltre, le ovvie implicazioni economiche legate ai possedimenti monastici e ai santuari, obbligava la capitale Benevento a porre tali “imperi economici” sotto il proprio controllo politico, come visto nel caso del Santuario di Monte Sant’Angelo e come dimostrato successivamente dalla cacciata dell’abate Autperto dal monastero di San Vincenzo al Volturno.

Il legame tra San Vincenzo e Farfa, inoltre, rimanda al legame tra i ducati di Spoleto e Benevento, entrambi nati in circostanze e contesti diversi rispetto ai ducati del nord, i quali a differenza di questi due erano del tutto sottomessi alla capitale Pavia. Questi due ducati periferici e autonomi, sempre retti da duchi che erano espressione della parte più bellicosa della vasta aristocrazia militare longobarda, in seguito alla cattolicizzazione modificano di molto il proprio atteggiamento, soprattutto nei confronti del Papa, che è geograficamente molto più vicino a loro che non ai Re della langobardia del nord Italia. La costruzione di San Vincenzo come “filiale” di Farfa, quindi non ci deve meravigliare: è molto probabile che l’abate Tommaso, in seguito alle recenti conquiste di Gisulfo e di fronte al proselitismo cattolico di sua madre Teuderada, abbia realmente chiesto dei terreni per costruire un cenobio e farlo gestire a tre monaci beneventani che si trovavano nel suo monastero. Solo alla morte dell’ultimo dei tre fondatori, infatti, il monastero di San Vincenzo diventa autonomo rispetto a Farfa, sempre restando sotto il controllo politico del duca di Benevento.

Per capire a fondo di cosa stiamo parlando occorre ricordare che il Monastero di Montecassino in quel periodo non era operativo; distrutto dai longobardi di Zottone nel 581, giaceva in completo abbandono e rovina, con i suoi monaci che erano dovuti scappare a Roma, dove avevano conservato la Regola. Tale regola benedettina, in effetti, torna a vivere proprio a Farfa e successivamente a San Vincenzo, per cui quello edificato da Tato, Taso e Paldo era in sostanza il primo esempio di costruzione monastica nel Ducato di Benevento.

Non essendoci “exempla” a disposizione nel proprio territorio, quindi, la presenza dell’abate Tommaso nel racconto delle origini del Monastero, risolve la necessità che avevano i longobardi beneventani di avere le informazioni essenziali su “come costruire un monastero” e per questo la tesi presentata nella Constructio Monasteri Farfensis appare decisamente convincente: è probabile che sia stato proprio l’abate di Farfa, il franco Tommaso, a dare l’idea ai tre giovani beneventani e a sovraintendere i lavori di costruzione, chiedendo al Duca Gisulfo, o più propriamente a sua madre Teuderada, la donazione di terreni che facevano parte delle recenti conquiste beneventane.

Sebbene nel Chronicon Volturnense si dica che Tato, Taso e Paldo fossero diretti in Francia per aderire alla vita monastica, in realtà è molto più probabile che già facessero vita monastica all’interno dell’abbazia di Farfa, che era sorta da poco e che costituiva l’unico “exemplum” a loro disposizione. È molto probabile che sia stato l’abate Autperto a definire il regno franco come meta dei tre giovani, sempre nell’ottica del contrasto ideologico tra franchi e longobardi, con i primi che si sentivano in dovere di rimarcare quanto la loro “cattolicità” fosse più antica e più solida di quella dei longobardi, che avevano osato sfidare il Papa, ai tempi in cui Autperto scriveva.

Come ci dice lo stesso Paolo Diacono, infatti:

In questo periodo alcuni Franchi, provenienti dalla regione dei Cinomanni o degli Aurelianensi, approfittando dell’abbandono in cui ormai da molti anni si trovava il monastero di Cassino, dove giace il corpo di San Benedetto, dopo aver finto di vegliare presso i resti del venerando padre, ne rubarono le ossa insieme con quelle di sua sorella, la veneranda Scolastica, e le portarono nella loro patria, dove per l’occasione furono costruiti due monasteri in onore dei due santi12”.

Quindi anche secondo Paolo Diacono i franchi erano decisamente più cattolici dei beneventani, ma non solo: il monastero era abbandonato da molti anni e nessuno si cura del fatto che qualcuno trafughi le reliquie di San Benedetto e di Santa Scolastica, a testimonianza dell’incuria verso il fenomeno monastico dimostrato dai duchi di Benevento, nel cui territorio era appunto ubicata l’abbazia di Montecassino, ovvero i suoi resti abbandonati. Questo rafforza la tesi che a fare da propulsore verso la fondazione di un monastero all’interno del territorio del Ducato di Benevento sia stato un elemento esterno, ovvero l’abate di Farfa, il quale trova non solo in Tato, Taso e Paldo, ma anche in Teuderada e suo figlio Gisulfo, ottimi collaboratori per realizzare il suo progetto di espansione del movimento monastico.

Dal canto loro, il duca Gisulfo, sua moglie Teuderada e l’aristocrazia beneventana, di cui Paldo, Taso e Tato sono espressioni, vedevano nella costruzione di un monastero all’interno del Ducato, la possibilità di poter competere con il Ducato Romano anche in termini ideologici, ovvero religiosi. Con la fondazione del monastero e la contestuale costruzione di luoghi di culto cattolici, i beneventani rafforzavano la propria autonomia politica, rinsaldando il legame tra la classe dominante, chiaramente longobarda, e le classi dominate, ovvero le popolazioni locali, nelle quali il culto cattolico era il principale collante sociale. In tal modo le popolazioni conquistate riuscivano a vedere positivamente l’arrivo dei longobardi conquistatori e, in alcuni casi, arrivavano ad esaltare tali conquiste e a ritenere che i longobardi fossero stati inviati da Dio per far riprendere vigore al culto cattolico, come del resto suggerito dalla “leggenda popolare” vista nel saggio precedente secondo la quale gli eserciti longobardi erano guidati in battaglia da San Michele, la cui presenza li rendeva invincibili.

La figura di Gisulfo I assume inoltre una grandissima importanza dal punto di vista numismatico: è con lui che viene attestata l’esistenza e l’importanza della Zecca Beneventana. Durante il suo ducato, infatti, è attestata la produzione locale di solidi aurei, ovvero delle monete più preziose che potessero circolare, con un altissimo valore nominale e con un enorme potere d’acquisto. La coniatura delle monete da parte dei longobardi era iniziata dopo la conquista dell’Italia, ma si trattava agli inizi di una monetazione definita “semi-imperiale”, ovvero fatta ad imitazione di quella bizantina, al fine di far circolare una maggiore quantità di moneta senza dover dipendere dalle zecche d’oriente; mentre le monete d’oro venivano prevalentemente usate come amuleti e gioielli. Dato che all’inizio le monete era perfettamente identiche a quelle coniate a Bisanzio, non si può definire con precisione l’inizio della monetazione beneventana; con tutta probabilità essa fu avviata dal secondo duca, Arechi I, come testimoniato da una moneta custodita al Museo di Cividale realizzata in area meridionale ad imitazione di quella dell’imperatore Eraclio, contemporaneo di Arechi I. La zecca beneventana era senza dubbio attiva nella seconda metà del VII secolo, ma si limitava, come detto, a copiare fedelmente le monete imperiali, in particolare quelle degli imperatori Costantino IV e Giustiniano II, e a coniare monete di uso comune.

Con Gisulfo, finalmente, si registra una sorta di salto di qualità da parte della zecca beneventana: si iniziano a coniare solidi aurei e il duca inizia ad apporre le proprie iniziali, anche se le facce della moneta rimangono quelle tipiche delle monete bizantine, ovvero la raffigurazione della testa dell’imperatore sul davanti e quella di una croce sul dietro, da cui, appunto, “testa o croce”.

In particolare con Gisulfo abbiamo due tipi di monete, una ad imitazione di quella coniata dall’imperatore Tiberio III, quindi prima del 704 ed un’altra ad imitazione di quella coniata nel secondo regno di Giustiniano II, dopo il 704. La prima moneta presenta l’imperatore in armatura con una lancia e uno scudo, mentre sul retro appare una croce con una base e la tipica scritta “Victor”. La seconda, invece, presenta da un lato l’imperatore in abiti civili, ovvero indossando il loros, una stola ricamata dall’alto valore e riservata solo alla famiglia imperiale, con una croce in una mano e nell’altra un globo crucigero, ovvero la rappresentazione del mondo sormontato da una croce, con la scritta PAX che compare sul globo; dall’altro lato, invece della classica croce, appare il busto di Cristo rappresentato in maniera frontale.

Occorre a questo punto evidenziare come le altre zecche longobarde, concentrate tutte nel Regno di Pavia dato che Spoleto non ebbe mai una zecca propria, emettevano al massimo tremissi aurei e non ci sono pervenuti solidi aurei da nessuna altra zecca. Per comprendere la differenza basterà ricordare che la tremissi valeva un terzo di un solido aureo, per cui, appunto, occorrevano tre tremissi d’oro per equivalere il valore di scambio garantito da un solido aureo. Se il Ducato di Benevento riusciva a coniare solidi aurei, quindi, significa sia che Benevento aveva una autonomia politica che si riverberava anche sul piano monetario, sia che la capitale del Ducato del Sud aveva a disposizione una maggiore quantità di oro rispetto alla stessa capitale del Regno, da cui si capirebbe ancor meglio il motivo della sua autonomia rispetto alla capitale Pavia. In particolare la coniatura di solidi aurei ad imitazione di quelli bizantini, rendeva palese il fatto che dal punto di vista economico, il Ducato di Benevento doveva avere rapporti economici più forti con l’Impero d’oriente piuttosto che con il Regno longobardo di Pavia. Il solido aureo bizantino, infatti, costituiva la moneta di maggior valore in tutto il bacino del mediterraneo e la sua coniatura consentiva ai duchi beneventani di commerciare con i bizantini e con chiunque altro in un modo che oggi si potrebbe dire “all’ingrosso”. Solo una grande quantità di solidi aurei poteva infatti consentire il pagamento di ingenti somme con un minimo ingombro.

Occorre inoltre ricordare come dal 663 in poi la presenza bizantina nel sud italia si era molto ridimensionata, per cui molto probabilmente la coniutara del solido aureo rispondeva alle mutate esigenze di reperimento di tale mezzo di scambio, indispensabile per le operazioni economiche di una certa portata. In più dobbiamo aggiungere che mentre nel nord Italia abbiamo rinvenuto diverse collane e manufatti nelle quali le tremissi erano usate come gioielli, nel Sud Italia non abbiamo ritrovamenti simili che ci inducano a pensare ad un uso estetico di tali monete, le quali, dunque, doveva rappresentare una sorta di “arma politica” da parte del Ducato. Con la coniatura delle monete di maggior peso nell’economia del tempo, Benevento si ergeva a ente politico completamente autonomo rispetto a chiunque altro e sottolineava la propria ricchezza e potenza.

Come visto quando abbiamo parlato di Cuniperto, inoltre, la monetazione longobarda del Nord aveva da qualche anno avviato la “riforma stilistica” introducendo la figura di San Michele Arcangelo su una delle facce delle monete, mentre invece la monetazione beneventana rimase fedele al proprio stile, ovvero la raffigurazione della testa e della croce. La testa, almeno con Gisulfo, rimase quella dell’imperatore, a cui il Duca si sostituiva, ma col passare del tempo divenne ben presto quella del Duca stesso e accanto si iniziò a riportare in modo chiaro anche il suo nome.

In sostanza anche la presenza di questa zecca, autonoma e indipendente rispetto alle altre zecche di Pavia e in contrapposizione aperta con quelle bizantine, testimonia di che portata fosse l’autonomia del Ducato di Benevento, che si era rafforzato e stabilizzato proprio grazie alla “dinastia friulana”. Anche il Ducato del Friuli era in un certo senso autonomo rispetto alla capitale Pavia, ma Benevento poteva contare, in più, anche sulla distanza e sulla separazione geografica, che amplificavano la sua indipendenza politica. Paradossalmente, però, proprio in quel periodo il ducato Friulano subì un duro colpo alla propria autonomia, a causa di un conflitto territoriale che vide contrapposti il duca Rodoaldo e il signore di Ragogna Ansfrit.13

“Ma mentre Rodoaldo, che abbiamo già detto teneva il ducato di Cividale, si trovava fuori città, Ansfrit, del castello di Ragogna, si impadronì del suo ducato senso il consenso del Re. Saputolo Rodoaldo fuggì in Istria e di lì, raggiunta per nave Ravenna, si recò a Ticino da Cuniperto. Non contento di reggere il ducato del Friuli, Ansfrit si ribellò anche contro Cuniperto e cercò di impadronirsi del regno. Ma, catturato a Verona, fu portato dal Re, accecato e mandato in esilio. Dopo di ciò, il ducato friulano fu governato per un anno e sette mesi da Ado, fratello di Rodoaldo, con il titol di reggente.”14

Come abbiamo avuto modo di leggere nel saggio su Grimoaldo II, la posizione dei Longobardi Friulani fu alquanto ambigua. Molto probabilmente l’incapacità di prendere una posizione sul campo di Coronate rifletteva un conflitto latente nel ducato Friulano, conflitto che si espresse nel piccolo golpe di Anfrit. Non siamo a conoscenza di scontri effettivi tra Cuniperto ed Anfrit, Paolo Diacono non ci dice nulla al riguardo, tranne che il ribelle di Ragogna venne catturato presso Verona. E’ lecito pensare che se ci fu uno scontro, fu veramente insignificante, tanto da non trovare traccia nella memoria collettiva dei Longobardi. Vanno segnalati due importanti episodi: la pratica dell’accecamento o della mutilazione, era ampiamente praticata dai Bizantini e non è da escludere un tentativo di emulazione del potere Imperiale tramite appunto le pratiche di mutilazione di usurpatori e rivali; con la cattura e l’accecamento di Ansfrit, il potere non tornò affatto a Rodoaldo bensì ad Ado suo fratello in qualità di reggente. Ciò significa che Cuniperto riuscì finalmente ad imporre il volere regio sul ducato Friulano che di fatto perse la propria autonomia, almeno fino alla fine del regno di Cuniperto.

Una cosa simile non si sarebbe mai potuta verificare nel ducato Beneventano. Romualdo aveva rinforzato l’impalcatura costruita da Arechi I e potenziata da Grimoaldo, il ducato meridionale era e sarebbe rimasto autonomo dal domino di Pavia.

Gisulfo, con le sue conquiste, dimostra che il Ducato di Benevento era ormai una solida realtà politica sovraregionale, in continua espansione e carico di una fortissima vivacità sociale e politica, quindi non semplicemente un dominio costruito attorno alla figura di un duca energico e risoluto, come poteva essere per i primi duchi, ma una comunità omogenea e salda che si identificava nel proprio capo e guida in maniera dialettica. Ad ogni modo il Duca doveva sempre mostrarsi pronto a soddisfare i desideri di conquista della componente militare, che come abbiamo detto più volte, aveva un peso politico non indifferente e spingeva costantemente per la preparazione di campagne militari.

Poco prima dell’impresa di Gisulfo, la stabilità di Pavia crollò nuovamente. Cuniperto, principe amatissimo da tutti, come scrive Paolo Diacono morì nel 700 lasciando il trono al giovane Liutperto. Proprio per la giovane età nel nuovo sovrano, venne scelto un reggente di tutto rispento, il saggio ed illustre Ansprando. Duca di Asti dal 688, Ansprando rappresenta uno dei prototipi del guerriero Longobardo, forte, saggio,illustre e fedele alla corona. Insomma l’uomo giusto nel momento peggiore.

“Ma, passati otto mesi, il duca di Torino Ragimperto – il figlio che il Re Godeperto aveva lasciato bambino quando fu ucciso da Grimoaldo, come abbiamo detto più su – venne con un forte esercito, combattè presso Novara contro Ansprando e Rotharit, duca di Bergamo e, vincendoli sul campo, si impadronì del regno dei Longobardi. Ma nello stesso anno morì.”15

Ci ritroviamo di fronte ad una guerra civile inter dinastica. Questa volta però tutti gli attori sembrano più che legittimati. Se Godeperto non godeva nell’amore del Diacono, poiché Ariano, sembrano non esserci parole di biasimo nei confronti di Ragimperto, il quale in nome di una vera e propria Faida si scaglia alla conquista del potere rigettando il regno nel caos. Quello che fu a tutti gli effetti l’ennesimo colpo di stato non sembra in alcun modo turbare però la penna del buon Paolo che riporta gli eventi senza avere nessuna parola di biasimo per Ragimperto, molto probabilmente perchè si trattava di un conflitto tra cattolici.

I due difensori del regno Ansprando e Rotharit16 furono sconfitti, per questo è legittimo credere che l’attacco di Ragimperto fosse avvenuto all’improvviso, ma che covasse sotto le braci un forte odio da parte dei duchi per la corte di Pavia. Gli ultimi anni di Cuniperto avevano effettivamente segnato un forte giro di vite sulle ambizioni e le pretese dei duchi, a vantaggio del rafforzamento del controllo regio. Quindi non c’è da stupirsi che alla sua morte i duchi abbiano trovato l’ennesimo campione su cui fare affidamento, con la differenza che Ragimperto era cattolico ed aveva la legittimità del sangue a regnare. Quando quest’ultimo morì, Ansprando e Rotharit provarono a rimettere sul trono il giovane Liutperto, ma l’energico figlio di Ragimperto riprese in mano le redini dell’azione:

“Allora suo figlio Ariperto riprese la guerra e combattè nei pressi di Ticino contro il re Liutperto e contro Ansprando, Ato, Tatzo e ancora Rotharit e Farao. Ma vintili tutti in battaglia, prese vivo sul campo il giovanissimo Liutperto. Riuscendo a fuggire, Ansprando si trincerò nell’isola Comacina.”17

Ariperto II riuscì a sopraffare la coalizione lealista. Badate bene che mentre sappiamo i nomi dei capi della fazione di Liutperto, di cui a parte i nomi non riusciamo a ricostruire in maniera dettagliata la genealogia, non sappiamo chi effettivamente facesse parte dello schieramento di Ariperto. Neanche della battaglia sappiamo molto, però possiamo ben desumere che i numeri fossero a vantaggio di Ariperto, vedendo questa strepitosa vittoria che fece cadere nelle sue mani lo stesso Liutperto. Ansprando fuggì nell’isola di Comacina18 mentre Rotharit riparò a Bergamo dove si autoproclamò re:

“Ma il duca Rotharit, tornato a Bergamo, che era la sua città, si proclamò re. Il re Ariperto mosse contro di lui con un grande esercito e, assaltata prima e conquistata Lodi, assediò Bergamo e la prese subito, espugnandola senza difficoltà con arieti e diverse macchine da guerra, e catturando lo pseudo-re Rotharit, gli fece rasare la testa e la barba e lo mandò in esilio a Torino, dove qualche giorno dopo fu ucciso. Allo stesso modo uccise nel bagno anche Liutperto, che aveva fatto prigioniero.”19

Per quanto possano questi eventi sembrare rocamboleschi e quasi romanzati, rappresentano uno specchio della complessità politica dell’epoca. Bergamo era sempre stata una città forte ed autonoma, Rotharit semplicemente, vista la sconfitta palese del fronte lealista, tentò la fortuna in maniera avventata e fallimentare. Anche lo stesso Diacono lo schernisce definendolo “pseudoregem” proprio a sottolineare la sua totale illegittimità. Lo scontro fu deciso dall’evidente superiorità tattica dell’esercito nazionale guidato da Ariperto; la presenza di numerose macchine d’assedio suggerisce un forte investimento da parte della corona e dei suoi partigiani. Una causa che non poteva in alcun modo ammettere una sconfitta o un dietrofront e qualsiasi mezzo era utile e legittimo, dalla vittoria sul campo all’assassinio.

La morte di Liutperto mandò in frantumi le speranze lealiste, l’ultimo combattente, Ansprando riuscì a fuggire dalla sua città fortezza e riparare preso i Bavari tra i quali resterà per ben nove anni. Per tutta risposta Ariperto fece radere al suolo la fortezza di Comacina e Bergamo venne trasformato in un gastaldato, togliendogli l’autonomia.

Dopo questa seria di vittorie, Ariperto II scatenò una feroce repressione contro tutti i suoi avversari, presunti o di fatto. In particolare il suo accanimento si riversò sulla famiglia di Ansprando:

“Confermato nel regno, il re Ariperto fece cavare gli occhi al figlio di Ansprando Sigisprando e infierì in diversi modi su tutti coloro che gli erano uniti in parentela. Tenne prigioniero anche il figlio minore di Ansprando, Liutprando; ma, poichè lo considerò persona di poco conto e ancora troppo giovane, non solo non gli recò alcun offesa nel corpo, ma gli permise di andarsene e di raggiungere il padre.”20

La ferocia di Ariperto sembrò essere indirizzata alla distruzione di tutto il seguito sociale e clanico di Ansprando. Probabilmente si rendeva conto che il suo rivale sarebbe potuto tornare, per questo si adoperò a distruggerne tutti i possibili alleati. Ancora una volta l’atto dell’accecamento dell’erede del casato di Ansprando, Sigiprando, per quanto sadico deve essere letto anche nell’ottica di spezzare qualsiasi possibile coalizione, nessuno avrebbe seguito un cieco. E uno stolto? La pessima opinione che Ariperto nutriva per Liutprando secondo il Diacono è indubbiamente opera della divina provvidenza, che così facendo salvò dalla mutilazione uno dei futuri più importanti re dei Longobardi, ma questa è un altra storia.

1Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, VI, 2

2 La notizia della reggenza ci viene riferita in Script.rer.Lang.et Ital.,cit. P 58

3Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, VI, 27

4 Di origine Efesina, venne proclamato papa il 30 ottobre del 701 e resse il trono di pietro fino all’11 gennaio del 705

5 Antiche città dei Volsci, attualmente facenti parte del comune di Frosinone

6 Altra città volscia occupata prima dai Sanniti e poi dai Romani, attualmente fa parte del comune di Frosinone

7 Comune in provincia di Frosinone situato a 2 km da Arce, altro comune frusinate.

8 Si rimanda a Ferdinando Grassi e Lamberto Ingaldi, I Pastori della cattedra beneventana

9 Autperti Vita Paldonis, Tatonis et Tasonis Vulturnensium, in Chronicon Volturnense, I

10Si rimanda a Federico Marazzi, Fama praeclari martyris Vincentii. Riflessioni su origini e problemi del culto di san Vincenzo di Saragozza a San Vincenzo al Volturno

11Si rimanda a Massimo Oldoni, La terra e l’anima

12Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, VI, 2

13 Rodoaldo fu duca nel 671 fino al 695 circa, mentre Ansfrit fu signore di Ragogna già sotto Grimoaldo I, fino al 698

14 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Libro VI, 3

15 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Libro VI, 18

16Membro della dinastia degli Arodingi fu di fatto l’ultimo Duca di Bergamo

17 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Libro VI, 19

18Lembo di terra circondata dal Lago di Como

19 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Libro VI, 20

20 Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, Libro VI, 21