GISULFO II, TREDICESIMO DUCA LONGOBARDO DI BENEVENTO

GISULFO II, TREDICESIMO DUCA LONGOBARDO DI BENEVENTO

di Alessio Fragnito e Vincenzo Antonio Grella, soci di Benevento Longobarda

“Allora il re Liutprando, arrivato a Benevento, ristabilì come duca nel posto che era suo, il nipote Gisulfo.”1

Come abbiamo avuto modo di leggere, l’azione repressiva di Liutprando contro i Ducati autonomi portò definitivamente tutto il dominio Longobardo sotto l’egida della corte di Pavia.

La politica di Liutprando fu il tentativo , probabilmente l’unico e solo, di costruire un regno unitario e guidato da una sola figura, pretendendo di ergersi al di sopra del potere ducale e di dominarlo. Gisulfo II di fatto crebbe alla corte di Pavia e perciò venne educato sotto l’occhio del re.

Il nuovo regime fu caratterizzato da una dura repressione nei confronti dei sostenitori di Godescalco, in particolare fu colpito quel ceto aristocratico-cortigiano che aveva dato i natali ai primi due usurpatori. Sempre per volontà regia, Gisulfo sposò Scauniperga, nobile donna Longobarda molto vicina agli ambienti di corte.

Il ducato di Gisulfo II si caratterizza per l’azione a sostegno delle istituzioni religiose e monastiche. I testi che parlano di lui lo accostano sempre a donazioni o lasciti in favore di importanti monasteri, alcuni dei quali grazie a lui ritornano a ricoprire ruoli di primo ordine, come ad esempio il Monastero di Montecassino, che la tradizione vuole essere risorto proprio grazie al duca beneventano. A tal proposito le Cronicae Sancti Benedicti Casinensis afferma che “nella città dei cassinesi, nel tempio degli idoli, la moglie di Gisulfo, di nome Scauniperga, fece porre alcuni altari in onore del beato principe degli apostoli Pietro, della beata e gloriosa vergine Maria e dell’arcangelo Michele, li ornò con icone, oggetti per il culto e altri splendidi doni e lasciò cose da ricordarsi con devozione. Quando il medesimo bellicoso duca Gisulfo (che in realtà il cronista confonde con Gisulfo I, autore delle scorribande contro il Ducato di Roma) salì nella rocca di quella città, che è detta Mello, nel luogo in cui il corpo del beato Benedetto era stato decorosamente sepolto, indotto in quel momento dall’amore divino, donò al beato padre Benedetto tutti i luoghi intorno, sia quelli sui monti che quelli in pianura, e stabiliti i censi, concesse che fossero mantenuti per sempre. Per la protezione degli abitanti contro gli assalti dei nemici egli però si riservò alcune aree di confine. Inoltre, per l’aiuto da prestare nel lavoro dei campi, ordinò ai vicini di obbedire ai monaci sia al tempo della semina che a quello delle messi2

Sebbene non abbiamo riscontro di tale donazione in nessun documento pervenutoci, è quasi certo che il monaco cronista facesse riferimento ad un diploma ducale del periodo, che probabilmente i monaci di Montecassino avevano conservato gelosamente, dato che da questo scaturiva il diritto a sfruttare i terreni circostanti il monastero, che ben presto divennero “le terre di San Benedetto”.

La definizione di Gisulfo II come “restauratore” di Montecassino è del resto molto antica. Già Stefano Borgia, nel 1763, nelle sue Memorie Storiche della Pontificia città di Benevento, scriveva che “in questi medesimi tempi cominciava a rifiorire quell’insigne monistero per opera dell’abate Petronace di Brescia speditovi da Gregorio II, che vi ricondusse i monaci ad abitarlo, giacchè fin dai tempi di Zottone, primo duca di Benevento, essendo stato quel monistero messo a fuoco e a rubba dai longobardi beneventani, secondo la predizione già fattane dal santo beato Benedetto, furono obbligati i monaci di partire e di rifugiarsi in Roma in un monistero che poi edificarono presso il Laterano. Era dunque ben di dovere, che il duca Gisulfo I con amplissima donazione risarcisse a

a quel sacro luogo i danni sofferti da qui primi longobardi del suo ducato, contribuendo per tal modo alla più sollecita restaurazione di esso3

Riguardo altre donazioni realizzate da Gisulfo II, i documenti a nostra disposizione4 sono invece ricchi di notizie, che ci fanno capire come il nuovo duca beneventano, insieme a sua moglie Scauniperga, fosse molto devoto e interessato a far sì che i monasteri, nascenti o in fase di espansione, avessero un legame politico con il palazzo ducale di Benevento.

Nel novembre del 743, nel palazzo beneventano, viene prodotto un documento con il quale Gisulfo concede a Zaccaria, abate del monastero di Santa Sofia in Ponticello, il condoma5 Pantione, il quale risulta essere “caballario”, con tutta la sua famiglia, unitamente al possedimento ubicato in località Capiano, che si trovava nell’Actio, ovvero nella giurisdizione, di Conza della Campania.

Nel giugno del 744 il duca effettua un’altra donazione allo stesso abate, a cui consegna il condoma Palombo, che risulta essere un “piscator”, ovvero un pescatore, non necessariamente di mare ma anche di fiume, con tutta la sua famiglia, che abita in località Ponte Lapedeo, ubicata nella subactio (la sotto-circoscrizione) governata dal proprio gastaldo e vestarario Secondo (potrebbe trattarsi anche del Ponte Leproso, poco fuori le mura di Benevento).

Molto più significativo è l’atto del’agosto 744, un vero e proprio “privilegio”, con il quale il duca Gisulfo II conferma alla chiesa del monastero di Santa Sofia in Ponticello, edificata dall’abate Zaccaria su un suo terreno, tutti i possedimenti concessi all’abate da suo padre Romualdo II (morto nel 731) e di recente donati o ancora da donare dall’abate al monastero, accordando al monastero, anche dopo la morte di Zaccaria, un particolare status giuridico, ovvero quello di monastero sottoposto unicamente al Palazzo Ducale di Benevento, confermando i diritti di possesso e di governo all’abate per tutta la sua vita, diritti tra i quali vi era anche quello di scegliere il suo successore a sua totale discrezione.

Tale monastero, non più esistente, si trovava fuori dalle mura della città, lungo la via Traiana, a poche centinaia di metri dalla porta Aurea, ovvero dall’Arco di Traiano. L’unica cosa che resta visibile oggi è il ponticello, inglobato all’interno di una rotonda spartitraffico e per questo in stato di abbandono totale.

I possedimenti del monastero di Santa Sofia a Ponticello, come sappiamo da un altro documento del luglio 745, comprendevano un giardino presso il fiume sabato, lascito del defunto Trasoaldo; un casale situato in Quinto Decimo, ovvero la Aeclanum romana, situata lungo la via Appia a quindici miglia da Benevento, anch’esso un lascito, del defunto Pergoaldo; tutti i possedimenti in località San Valentino del defunto Toto, definito transpadano; i possedimenti dentro e fuori le mura di Benevento che erano di proprietà del defunto Siduli; le proprietà di Fuscolo, definito “casario”; un fondo in località Fluvium Lauri; i possedimenti donati dal defunto Giuliano e del bestiame appartenente a un tale Corbuli. Tutti i possedimenti sono da intendersi come donati all’abate Zaccaria, il quale alla sua morte li donerà al Monastero, che rimane anche in questo documento completamente sottoposto solo al Palazzo Ducale.

Altro monastero destinatario delle attenzioni e delle concessioni del duca Gisulfo è il monastero femminile di Santa Maria in Cingla, che in un documento del maggio 747 viene definito come fondato dal Duca e da sua moglie per la salvezza delle proprie anime, di cui risulta essere prima badessa Acetruda, a cui vengono concesse due curtes ducali situate nel territorio di Teano in località Bairanum, molto probabilmente l’attuale Vairano Patenora, tra i cui possedimenti vi sono una chiesa detta di Santa Cecilia e ben sette famiglie di condomae. Alla morte di Acetruda, Gisulfo confermerà la badessa Gausa, coadiuvata dalle monache Pancrituda e Gariperga (le quali vengono presentate come straniere “emigrate” nella terra beneventana), alla guida del monastero di Santa Maria in Cingla, il quale è però sottoposto al Monastero di Montecassino, per cui sebbene il duca riconosca alle monache il diritto ad eleggere le proprie successive badesse in autonomia, tale nomina deve ricevere sempre l’approvazione dell’abate di Montecassino.

Un ulteriore monastero che riceverà donazioni da parte di Gisulfo II è quello di Santo Stefano Martire in Strata, molto probabilmente sorto lungo una delle vie di accesso a Benevento, per cui la Via Traiana, la Via Appia Antica o la Via Latina, di cui era abate Rimecauso e che si trovava all’interno della giurisdizione del gastaldo Rotulo.

Ovviamente tra le tante donazioni e conferme operate da Gisulfo II non potevano mancare quelle fatte al Monastero di San Vincenzo al Volturno, che era all’epoca la principale istituzione religiosa del meridione d’Italia. Sebbene oggi tutti diplomi inerenti le concessioni fatte a Gisulfo II a San Vincenzo siano considerati dei falsi, vale la pena riportarne qualcuno al fine di allargare le nostre conoscenze.

“Nel nome del Signore Dio eterno, Noi, glorioso Gisulfo, sommo Duca a Benevento della gente dei longobardi, al venerabile monastero di San Vincenzo Martire, che è situato entro i confini del Sannio nel territorio di Benevento presso la sorgente del fiume Volturno, dove si sa che tiene il governo il venerabile Atto, abbiamo concesso la chiesa della santa madre di Dio Maria in Loco Sano con tutte le sue dipendenze, come è stato stabilito dalla signora Teuderada (la duchessa moglie di Romualdo I), con tutti i territori sovrastanti e sottostanti, le terre, i monti, le valli, le pianure, i boschi, i prati, i pascoli, i campi, i vigneti, le acque, i corsi d’acqua, le rive, i mulini, le peschiere, i casali, i servitori e le ancelle, le chiese, ovvero le chiese di Santa Maria e di San Potito a Bocanzano, le chiese di San Felice e di San Martino a Feletta, la chiesa di Sant’Andrea a Pesano, con tutte le cose che si possono dire e nominare. Concediamo anche che gli uomini, che siano stati assegnati per lavorare sulla terra della chiesa, non rendano alcun servizio pubblico ad altri se non allo stesso santo monastero; concediamo e confermiamo allo stesso sacro luogo che una parte di quei fratelli abbiano il diritto di costruire mulini sul fiume Calore e sul fiume Fretona6”.

Questo e altri due documenti, che sono riconosciuti come falsi da tutti gli storici, definiscono una lunga serie di proprietà a vantaggio di San Vincenzo al Volturno, di cui abbiamo parlato nei saggi precedenti e di cui vale la pena sottolineare la massima importanza nell’ambito dei rapporti tra istituzioni politiche ed istituzioni religiose. Tali concessioni verranno confermate anche dal re Astolfo, in un documento, anche questo contenuto nel Chronicon Volturnense e anche questo riconosciuto come falso, nel quale il re dei longobardi succeduto a Ratchis, afferma che “Nel nome della Santa e Indivisibile Trinità, noi, signore Astolfo, sommo re dei longobardi, per intercessione di Gisulfo, esimio duca della gente dei Longobardi nel territorio di Benevento, presso la sorgente del fiume Volturno, concediamo e confermiamo al venerabile monastero di San Vincenzo martire, del quale appare che il venerabile servo di Cristo abate Paldo detenga il governo, tutte quelle concessioni che nella provincia di Benevento il Duca Gisulfo ha fatto delle terre e dei monti adiacenti, e in altre parti del regno italico, di chiese, celle, villaggi, castelli e terre, così come sono elencati nel diploma del suddetto Duca, in modo che li posseggano saldamente per intero con diritto perpetuo senza l’opposizione di altri”.

La cacciata di Godescalco e l’imposizione di Gisulfo II come duca di Benevento avvenne nel 742 in una penisola sconvolta non solo dalle guerre longobarde , ma anche dal pesante conflitto iconoclasta, se da un lato il ducato di Roma sotto la guida del papato incominciò a delineare i tratti politici e territoriali del futuro stato territoriale dell chiesa, dall’altra assistiamo al completo collasso del domino Bizantino nell’Italia settentrionale.

Le ragioni di questo crollo sono rintracciabili nelle scielte territoriali dell’impero, che cercò di ampliare e salvaguardare i domini orientali e balcanici. In questo stesso anno Aravasde prendeva la corona imperiale direttamente dalle mani del patriarca Anastasio , nomianda suo figlio Niceforo co-imperatore e ristabilendo il culto della immagini.

Intanto Costantino V era fuggito ad Amorio7, che era stato il centro del comando militare del padre del tema anatolico, raccogliendo un nutrito seguito di partigiani. Questa ennessima guerra civile fu contrassegnata e possiamo dire scatenata dalla lotta iconoclasta e che adesso entrava nella sua fase più peculiarmente politica. Però bisogna anche distinguere bene la portata dello scontro, infatti in Asia Minore furono i temi di Opsikion e Armeno a schierarsi con Artavasde, e questi due temi non erano assolutamente iconofili. Tuttavia le truppe ivi schierate erano legate personalmente all’usurpatore e perciò egli poteva contare sulla fedeltà delle truppe, ma non su quella della popolazione.8D’altra parte Costantino V fu un abile comandante e di fatto la guerra di concluse del Novembre del 743, quando le truppe di Costantino entrarono solennemente a Costantinopoli.

La repressione fu spietata, Artavsde, i suoi figli e i suoi seguaci furono mutilati ed accecati nell’ippodromo, mentre Anastasio fu portato in giro nell’ippodromo a cavallo di un asino, ma dopo questa pubblica umiliazione potè mantenere la sua carica. Così si conclusero i sedici mesi di Artavsde, la cui carica era stata ratificata ed accettata in Roma, cosa di cui Costantino V non si dimenticò.

Costantino non era il robusto soldato che era il padre, Leone III. Nervoso,sofferente di gravi malattie, in preda a insane passione, era di natura complicata e contraddittoria. Tuttavia fu un generale ed un fervente iconoclasta superando il padre grazie ad un raffinato acume strategico che, negli anni seguenti, lo portarono ad ottenere delle sfolgoranti vittorie sia contro gli Arabi che contro i Bulgari, facendolo diventare l’idolo dei soldati dell’esercito dell’Impero.

La guerra civile e l’incalzare delle minacce bulgare ed arabe,costrinsero l’impero a focalizza re tutte le proprie risorse sui questi due fronti, lasciando di fatto completamente abbandonati i territori nella penisola italica. Ma di fatto che cosa stava accadendo nei domini Longobardo?

“Ma Liutprando,dopo aver retto il regno per trentun anni e sette mesi,ormai maturo di anni,compì il corso di questa vita e il suo corpo fu sepolto nella basilica del beato Adriano martire,dove anche suo padre riposa.Fu uomo di molta saggezza,accorto nel consiglio,di grande pietà e amante della pace,fortissimo in guerra,clemente verso i colpevoli,casto,virtuoso,instancabile nel pregare,largo nelle elemosine,ignaro sì di lettere ma degno di essere paragonato ai filosofi,padre della nazione, accrescitore delle leggi. All’inizio del suo regno conquistò moltissimi castelli dei Bavari,sempre fidando più nelle preghiere che nelle armi,sempre custodendo con la massima cura la pace con i Franchi e con gli Avari.”9

Questo lunghissimo epitaffio al re non chiude solamente il libro sesto dell’opera di Paolo Diacono, ma è letteralmente la chiusura totale della narrazione. Convinto che con il regno di Liutprando il dominio dei longobardi in Italia avesse raggiunto il suo apogeo e vivendo di persona il crollo del regno e la conquista di Pavia e Spoleto da parte di Carlomagno, il nostro Paolo Diacono, che preferì rinchiudersi nel monastero di Montecassino, dove si dedicò appunto alla stesura della sua Historia Langobardorum e della meno conosciuta Historia Romanorum, tralascia di raccontarci tutti gli eventi successivi alla morte di Ildebrando, che succedette a Liutprando.

Per questo già qualche secolo dopo la stesura della sua storia e longobardi, furono in molti a pensare di dover riprendere la narrazione della gens langobardorum partendo proprio da dove era stata interrotta dal suo autore. Abbiamo per tanto diversi testi che ci parlano dei longobardi da Astolfo in poi, anche se molti di essi si limitano a riportare i nomi dei principi longobardi del sud Italia. Nei prossimi saggi ci soffermeremo su tre testi in particolare: La Continuazione Cassinese a Paolo Diacono, la Piccola Storia dei Longobardi Beneventani del monaco Erchemperto e il Cronicon Salernitano, redatto da un monaco sulla cui identità gli storici sono ancora divisi. In particolare Erchemperto inizia il suo racconto mettendo proprio in evidenza il fatto che Paolo Diacono non abbia volutamente parlare del crollo del regno perchè, a suo dire “è tipico dello storico, soprattutto quando egli tratta del proprio popolo, raccontare soltanto quegli eventi che si sa che possono aumentarne la glorificazione”, per questo egli si assume il compito di raccontare “non la loro dominazione ma la loro fine, non la loro felicità ma la loro miseria, non il loro trionfo ma la loro rovina”.

Liutprando morì nel gennaio del 744. Agli occhi dei contemporanei e sopratutto dei sui diretti subordinati, egli dovette realmente incarnare l’archetipo definitivo del re Longobardo, riuscendo a contenere tutte le contraddizione del potere e allo stesso tempo non distaccandosi dalla profonda fede cattolica che lo contraddistinse. Naturalmente non possiamo lasciaci troppo abbagliare dalle parole,di Paolo Diacono. Liutprando fu inanzi tutto il nemico giurato delle autonomie e di fatto i suoi conflitti più accessi furono con i grandi Ducati, più che contro i nemici storici del dominio Longobardo.

Di fatto il suo disegno accentratore sarebbe dovuto continuare nella figura del nipote Ildeprando, già associato al trono, ma dopo pochi mesi di regno vi fu la disposizione di quest’ultimo in favore di Ratchis. Tutto ciò non fu affatto inusuale. Se analizziamo completamente il regno di Liutprando, ci renderemo conto che i duchi chinarono il capo, solo ed esclusivamente perchè la figura di Liutprando era decisamente troppo solida e forte per poter essere in qualche modo spodestata, e i tentativi dei vari antagonisti al suo potere era miseramente falliti. Ma questo non significava un indebolimento del potere dell’aristocrazia ducale, spina dorsale effettiva del regno, essi aspettarono solo il momento propizio per la rivalsa. Ratchis ci è già stato presentato più volte nella storia di Paolo Diacono, come uomo accorto e lungimirante, tanto dal fermare la lama del fratello Astolfo. Tuttavia egli mancò delle abilità politiche del predecessore.

Da sovrano Ratchis si mostrò innanzitutto propenso a portare avanti un programma di pace,nel periodo immediatamente precedente, le attività militari erano state intense a danno di quelle legislative. Egli emanò pertanto alcune leggi che idealmente integrarono l’editto di Rotari richiamandovisi esplicitamente, istituendo inoltre una continuità con l’attività legislativa di Grimoaldo e di Liutprando. Tali provvedimenti affrontarono, inoltre, il tema della legalità e dell’ordine, perseguirono drasticamente i tentativi di rivolta o di tradimento punendo le eventuali spie introdottesi a corte o le relazioni intrattenute all’insaputa del monarca con i popoli vicini. Proseguendo l’opera di Liutprando, infine, Ratchis inasprì le pene per gli abusi perpetrati da parte degli Iudices,confronti degli strati sociali più deboli nelle varie regioni del regno, dimostrando inoltre la capacità di intervenire anche nelle regioni più periferiche, come l’Italia centrale.La politica di distensione del nuovo sovrano con il papa Zaccaria portò alla firma di una pace ventennale anche con i territori Bizantini.

La vicinanza al mondo romano e alle sue consuetudini gli vennero probabilmente dalla moglie Tassia10,che la tradizione vuole essere stata un’aristocratica di Roma. Il matrimonio sarebbe stato celebrato ignorando gli antichi usi longobardi, fatto che avrebbe inasprito i già tesi rapporti con i settori dell’aristocrazia più tradizionalisti e contrari a ogni apertura nei confronti dei rappresentanti Romani e Bizantini. Questo disegno per quanto possa sembrare inusuale, rappresenterebbe un tentativo goffo di risolvere definitivamente la “questione Romana” provando ed elaborare una fusione definitiva tra l’elemento Longobardo e quello Italico e una pacificazione totale del dominio, tentavio che sarebbe fallito nell’immediato. L’opposizione della fazione ostile al progressivo avvicinamento ai romani sottomessi e ai compromessi con Bisanzio e con il suo rappresentante locale, l’esarca, avrebbe costretto il sovrano a intraprendere una nuova campagna militare; nonostante la pace stipulata, re Ratchis mosse contro la Pentapoli e pose l’assedio a Perugia.

Dopo lunghi negoziati, papa Zaccaria riuscì a far desistere il re dall’impresa e a fermarlo. Gli oppositori ne approfittarono per deporre il sovrano e nel luglio del 749 elessero a Milano re dei Longobardi il suo più giovane fratello Astolfo. Ratchis scelse la vita monastica; dopo essersi recato con i figli e la moglie, si sarebbe ritirato dapprima presso il Soratte, poi a Montecassino. Sua moglie Tassia con la figlia Rottruda sarebbero entrate nel non distante monastero femminile di S. Maria di Plumbariola.

Per quanto i cronisti cassinesi e di parte pontificia, sottolineassero la grande devozione di Ratchis e il forte ascendente che il papa Zaccaria ebbe su di lui, è molto più probabile che furono le forti pressioni interne dell’aristocrazia a spingere per questa risoluzione. Di fatto Astoflo era l’altra faccia della medaglia, tanto è vero che il Diacono c’è lo presenza nell’atto di sfoderare la spada contro Liutprando.

Il Ducato Friulano impose quindi Astolfo come nuovo re dei Longobarda, personalità molto meno malleabile del fratello come si accorse suo malgrado lo stesso Zaccaria. Nel 750 Astolfo diede il via ad una grande mobilitazione militare che ha lasciato una preziosissima traccia di sé nelle leggi allora emanate dal re. Questa mobilitazione aveva un solo scopo, annientare una volta per tutte il dominio Bizantino nell’italia settentrionale.

Le leggi di Astolfo iniziano con l’annullamento delle donazioni fatte da Ratchis in seguito all’elezione del fratello per poi affrontare subito la questione della composizione dell’esercito: chi non può permettersi di provvedere a proprie spese all’equipaggiamento viene sostanzialmente esonerato dal servizio militare, che resta obbligatorio comunque per tutti gli arimanni, almeno in teoria. Il secondo capitolo delle leggi infatti afferma che: “circa quegli uomini che possono avere una corazza eppure non ce l’hanno affatto, o quegli uomini minori che possono avere cavallo, scudo e lancia eppure non li hanno affatto, oppure quegli uomini che non possono avere, né hanno, di che mettere assieme, (si stabilisce) che debbano avere scudo e faretra. Resta fermo che quell’uomo che ha sette case massaricie abbia la sua corazza con il restante equipaggiamento e debba avere anche i cavalli e il restante armamento; e se ne ha di più, per questo numero deve avere i cavalli e il restante armamento. Piace inoltre che quegli uomini che non hanno case massaricie e hanno 40 iugeri di terra abbiano cavallo scudo e lancia; così inoltre piace al principe circa gli uomini minori, che, se possono avere lo scudo, abbiano la faretra con le frecce e l’arco”. L’arruolamento è quindi su base sostanzialmente economica e dal servizio nell’esercito non sono esonerati nemmeno i “negotiantes”, ovvero i mercanti, spesso molti ricchi ma privi di beni fondiari, per i quali il terzo capitolo stabilisce che “quelli che sono maggiori e potenti abbiano corazza e cavallo, scudo e lancia, quelli che vengono dopo abbiano cavalli, scudo e lancia, quelli che sono minori abbiano faretre con frecce ed arco”. I capitoli successivi ristabiliscono i valichi di frontiera e proibiscono il commercio con i romani e oltre i confini della nazione longobarda se non con l’approvazione regia.

I capitoli militari delle leggi del primo anno di Astolfo erano indispensabili per costruire un esercito ben organizzato e strutturato capace di portare avanti campagne militari di espansione. Anche l’esercito, che per i longobardi era spesso sinonimo di “popolo”, veniva quindi riorganizzato sulla base della ripristinata centralità del potere regio. Abbiamo infatti visto come spesso i longobardi realizzassero le campagne militari quasi su iniziativa dei singoli duchi, che affiancavano il re nelle conquiste e nelle battaglie, come se esistessero esercito “privati” dei singoli duchi che potevano essere messi a disposizione del re ma anche no, come del resto era tradizione fin dai tempi delle Fare. Con questi capitoli legislativi, invece, si stabilisce una volta per tutte che l’esercito longobardo è uno solo e tutti gli “exercitales” devono rapportarsi direttamente al re e devono armarsi in base alla propria ricchezza. Capiamo quindi che la corazza lamellare, chiamata “lorica” nel testo originale latino, è appannaggio dei più ricchi mentre il cavallo è un’arma da guerra più economica, che solo gli uomini definiti “minori”, quindi gli uomini liberi di quella che potremmo chiamare “piccola borghesia cittadina”, non possono permettersi.

Questa ristrutturazione dell’esercito e la chiamata alle armi che ne consegue danno subito i frutti sperati: nel 750 l’esercito nazionale longobardo invade l’esarcato e conquista facilmente Comacchio e Ferrara, l’anno dopo Astolfo entra a Ravenna e la occupa. Con un atto molto significativo, conia a Ravenna una moneta in stile bizantino con la sua effige, proclamandosi successore dell’Esarca e quindi rappresentante dell’imperatore bizantino in Italia, in modo da poter legittimamente chiedere al Papa di versargli i tributi. Nel 752 viene infatti eletto Papa Stefano II, a cui Astolfo chiede di versare un solido d’oro per ogni abitante del ducato di Roma e di riconoscere la sua subalternità al re dei longobardi e contemporaneamente esarca bizantino. Il Papa non accetta e allora Astolfo nel 753 occupa la piazzaforte di Ceccano, minacciando seriamente la città di Roma, senza però mai invaderla.

Non avendo più un esarca a cui rivolgersi, non potendo contare nemmeno sul sostegno dei duchi autonomi di Spoleto e Benevento, i quali erano ormai assoggettati alla corona pavese, il Papa sembra non avere più nessun sostegno in Italia. Infatti Astolfo nel 751 aveva rimosso il duca di Spoleto Lupo, che era stato nominato da Ratchis e aveva assunto egli stesso il potere ducale, mentre a Benevento, dopo la morte del duca Gisulfo, avvenuta nello stesso anno, aveva lasciato a governare sua madre Scauniperga, di cui poteva fidarsi ciecamente, senza sentire il bisogno di eleggere un duca, anzi, lasciando la sede vacante proprio per rafforzare il potere centrale. Fu per questo che Papa Stefano II si rivolse ai Franchi, avviando un rapporto destinato a durare più di un millennio.

Se andiamo a leggere le leggi militari di Astolfo con attenzione capiamo quanto si sia trasformata la società longobarda rispetto alla sua composizione prima di entrare in Italia nel 568. Innanzitutto notiamo che il legislatore rileva l’esistenza di uomini, non più definiti arimanni ma appunto semplicemente uomini, i quali pur avendo le possibilità economiche di possedere armi di un certo livello come corazza, cavallo, lancia e scudo, non hanno nessuna di queste armi, perchè evidentemente non le usano e non le sanno usare. Questo equivale a dire che non tutti gli arimanni longobardi avevano nella guerra la principale occupazione quotidiana? Sembrerebbe infatti che siano molti gli uomini liberi che hanno perso dimestichezza con le arti militari. Per loro, infatti, non si stabilisce che debbano avere un equipaggiamento corrispondente alla loro ricchezza e rango sociale ma che invece siano armati solo di scudo e faretra, perchè pur volendo fornire loro qualche arma non la saprebbero usare. La scudo serve solo a difendersi e la faretra a portare le frecce, per cui si tratta in sostanza di “truppe ausiliarie”: a loro non viene dato nemmeno l’arco, il quale è appannaggio degli “uomini minori” che però evidentemente sono in grado di maneggiarli.

Si tratta quindi, in sostanza, di un arruolamento di massa su scala nazionale, che vede gli abili alla guerra, ovvero persone capaci di combattere, obbligati ad armarsi in base alle proprie ricchezze, e gli “inesperti” di cose militari che sono comunque arruolati a forza anche se non costretti a dotarsi di armi costose che non saprebbero nemmeno usare. Per gli uomini ricchi e potenti, invece, “resta fermo” che devono armarsi di corazza, cavallo, scudo e lancia, presupponendo che questi siano esperti dell’arte militare. Ad evidenziare la natura “nazionale” della chiamata alle armi è inoltre la dicitura “al principe piace”, che sottolinea appunto la centralità del potere regio anche e soprattutto nell’organizzazione dell’esercito.

Se consideriamo gli “inabili” alla guerra non solo come uomini appartenenti alla popolazione longobarda che hanno perso dimestichezza con le armi ma anche come uomini appartenenti alla popolazione romana sottomessa, se ne deduce appunto che la chiamata alle armi non era riservata soltanto a chi la guerra la faceva per mestiere bensì a tutti gli uomini che avevano un minimo di possibilità economica: uno scudo, e soprattutto un arco e una faretra con relative frecce erano armi decisamente economiche e ampiamente diffuse per la caccia.

Volendo diventare nei fatti “re di tutta l’Italia”, come amavano definirsi i re longobardi, evidentemente Astolfo sentiva il dovere di arruolare nel suo esercito tutti gli uomini d’Italia, a prescindere dall’essere arimanni da sette generazioni e organizzando l’arruolamento solo in base all’abilità militare e alla propria ricchezza personale.

C’era quindi un limite di persone da esonerare, in funzione della grandezza del centro amministrato: gli sculdasci governano piccoli borghi e i saltarii masserie fortificate, per cui la differenza nel numero dei congedati è data da questioni demografiche.

Dalle leggi militari di Astolfo, che in parte richiamano direttamente le leggi precedentemente emanate da Liutprando, che andavano nella stessa direzione, capiamo quindi che esisteva una sorta di gerarchia militare che veniva poi applicata anche agli altri aspetti dell’amministrazione, rendendo evidente come la componente militare fosse ancora centrale nella società longobarda e nella sua organizzazione, anche dopo l’insediamento nelle città italiane. Il Re è il capo dell’esercito, sotto di lui ci sono i Duchi e i Gastaldi, che hanno compito di procedere all’arruolamento degli arimanni nelle grandi città. A sua volta ogni Duca o Gastaldo ha alle proprie dipendenze più Sculdasci, che reclutano gli arimanni nei centri minori, e diversi Saltarii, responsabili dell’arruolamento nei piccoli assembramenti rurali. In tempo di pace a loro è destinato il compito di amministrare la giustizia e di riscuotere le tasse nei loro territori di pertinenza. Il potere politico e le responsabilità amministrative derivano quindi dal ruolo ricoperto nell’esercito, come da tradizione. Una volta giunti nell’esercito, è altamente probabile che gli uomini arruolati restassero sotto il comando di colui che li aveva arruolati, secondo una modalità di divisione dell’esercito che i longobardi avevano appreso dai bizantini quando furono usati da questi come truppe federate nella guerra greco gotica e che in sostanza vedeva i decani comandare drappelli di dieci unità e i centenari comandare le formazioni di cento unità. Il termine decano, viene usato talvolta nelle leggi longobarde e negli atti pubblici per indicare i governatori di piccoli centri, allo stesso modo del Saltario. Chi veniva esonerato dalla partecipazione alla guerra, doveva comunque cedere un cavallo o, se non poteva permetterselo, prestare servizio di Sculca, ovvero di polizia cittadina, da intendersi sia come “esecutore” delle sentenze giudiziarie emesse dal giudice, sia come rappresentante dell’autorità in assenza del giudice perchè in guerra. Il testo infatti dice che gli esonerati dovranno fare “tre lavori a settimana” per conto del giudice, senza dare indicazioni, sono in pratica al servizio dell’autorità.

In sostanza possiamo sostenere che l’organizzazione militare si riverberava anche all’interno dell’amministrazione dei territori e dell’organizzazione sociale.

L’equipaggiamento militare, quindi, era a spese di chi veniva chiamato in guerra. Il “grado” di equipaggiamento obbligatorio è relativo alla propria capacità economica: i più ricchi devono presentarsi armati di tutto punto e devono armare anche cavalli in base alla quantità delle loro ricchezze, e costituiranno le cosiddette “prime linee” dello schieramento in battaglia;

gli uomini medio-ricchi devono presentarsi con almeno cavallo, lancia e scudo, andandosi a posizionare come “seconde linee” nello schieramento, mentre i meno ricchi devono provvedere ad almeno arco, frecce e scudo e saranno quindi le truppe ausiliarie, le ali, che daranno supporto alle truppe schierate.

L’obbligo di partecipare all’esercito o alla Sculca è imprescindibile, per lo meno nelle leggi di Liutprando e di Astolfo: anche se si viene esonerato dall’esercito si devono svolgere lavori di Sculca, ovvero di polizia locale. La guerra è quindi un affare di massa, una questione che riguarda l’interno popolo, e le leggi di Astolfo sono finalizzate a ripristinare questo assunto fondamentale per l’identità longobarda, che invece circa 100 anni di immobilismo militare avevano infiacchito. Sarà proprio questa perdita di dimestichezza con le armi che determinerà la sconfitta ad opera dei Franchi, i quali, invece, non avevano mai abbandonato la mobilitazione di massa e per questo riusciranno a sconfiggere l’esercito sia di Liutprando che di Astolfo.

Nell’estate del 751, sotto i colpì dei Longobardi di Astolfo, crollava Ravenna ed Eutichio, ultimo esarca di consegnava nelle mani del re dei Longobardi. All’indomani della vittoria Astolfo si definì trionfalmente, nel prologo delle sue leggi “re della stirpe dei Longobardi,essendoci stato consegnato da Dio il popolo dei Romani”. Con questa diciture egli stava a sottolineare che ormai i Romani,i Bizantini dell’esarcato erano di fatot sudditi della corte di Pavia.

Questa sfolgorante vittoria, che sembrò chiudere definitivamente il lungo conflitto tra Longobardi e Bizantini, aprì però lo scenario che avrebbe in seguito determinato la caduta del regno di Pavia. L’impero bizantino era asserragliato in Sicilia e di fatto non era in grado di organizzare nessuna rivalsa nei confronti dei Longobardi, il papato dovette ricercare nuovi alleati e li trovò dei Franchi, in particolare nella figura di Pipino il figlio di Carlo Martello. Pipino era da poco asceso al trono come unico re dei Franchi, spodestando l’ultimo rappresentate della stirpe dei Merovingi, ma di ciò parleremo con più precisione nel prossimo saggio.

1 Paolo Diacono,Storia dei Longobardi, Libro VI, 58

2Si rimanda alle Cronicae Sancti Benedicti Casinensis, terza parte

3Si rimanda a Stefano Borgia, Memorie Istoriche della Pontificia Città di Benevento, note

4Si rimanda ai diplomi contenuti nel Codice Diplomatico Longobardo IV/2 I diplomi dei Duchi di Benevento, a cura di Herbert Zielinski

5Il condoma è un conduttore fondiario, che lavora la terra per conto di un signore, laico o ecclesiastico

6Si rimanda al Chronicon Volturnense del Monaco Giovanni

7 Città della Frigia, divenne particolarmente famosa e ricca sotto l’impero Bizantino

8 G. Ostrogorsky , Storia dell’Impero Bizantino, pp 152

9 Paolo Diacono,Storia dei Longobardi, Libro VI, 58, vv 49-60

10 Effettivamente Tassia fu la prima, ed unica, regina di origine non Romana