GREGORIO, UNDICESIMO DUCA DI BENEVENTO

di Alessio Fragnito e Vincenzo Antonio Grella, soci di Benevento Longobarda

“Allora intervenne Liutprando, che giunto a Benevento, portò via con sé Gisulfo, sostituendolo con suo nipote Gregorio che poi avrebbe sposato Giselberga.”1

Siamo di fronte a un ad un fatto senza precedenti della storia del Ducato di Benevento, la corte di Pavia ha preso il controllo politico ed istituzionale del ducato con la forza, imponendo addirittura un “reggente” completamente staccato dall’aristocrazia territoriale.

Come abbiamo potuto leggere nel precedente saggio, tutta la politica Liutprandiana è volta al completo controllo territoriale del dominio Longobardo, tuttavia egli non potè mai ottenere questo risultato solo ed esclusivamente con il consenso delle armi. I vari ducati reagirono in maniera diversa a tale politica e Benevento oppose una resistenza molto più feroce, dovuta alla complessità sociale del ducato e in particolar modo della sua corte, che rivaleggiava per potere direttamente con la corte di Pavia.

Dobbiamo ricordare e sottolineare che alla morte di Romualdo II nel 731, suo figlio Gisulfo II, di certo minorenne, viene detronizzato dal partito autonomista beneventano, ovvero da quella componente dell’aristocrazia che non aveva gradito l’intromissione del Re Liutprando negli affari del Ducato. Si era cioè realizzata di fatto una brusca interruzione della linea di successione dinastica che aveva garantito stabilità politica fin dai tempi dei fratelli Radoaldo e Grimoaldo, rispettivamente quarto e quinto duca di Benevento. In particolare quella che potremmo definire come “dinastia friulana” per via della provenienza geografica del capostipite Grimoaldo I, godeva di enorme fama, dovuta alle gesta eroiche del grande condottiero che l’aveva “istituita”, per cui la scelta di detronizzare il giovane Gisulfo II acquisiva un carattere esclusivamente politico. Non a caso, infatti, l’aristocrazia beneventana sostituisce il figlio del defunto duca con un nobile burocrate della Corte beneventana, referendario e gastaldo, che di certo non può vantare lo stesso lignaggio del minorenne pronipote di Grimoaldo I, che a sua volta discendeva da Gisulfo Duca del Friuli, che era nipote del Re Alboino, quindi un lignaggio che non temeva confronti. La scelta di un duca che fosse espressione diretta dall’aristocrazia “palatina”, ovvero di quella componente nobiliare che di fatto reggeva il complesso sistema di governo del Ducato beneventano, fu letta dal Re Liutprando come una vera e propria dichiarazione di guerra, per cui egli scese con l’esercito nazionale nel meridione, abbandonando i territori appena conquistati e dando la possibilità ai bizantini di riprendere Ravenna, la propria capitale italiana. Ciò significa che Liutprando considerava la sottomissione di Benevento alla propria politica di unificazione nazionale come indispensabile e fondamentale, soprattutto alla luce del fatto che il ducato beneventano era decisamente più esteso sia dell’esarcato bizantino sia di qualsiasi altra entità territoriale presente in Italia nel periodo. Tale sottomissione era stata ottenuta con un atto formale da parte di Romualdo II, e proprio per questo, alla sua morte, gli aristocratici beneventani, o almeno una grande parte di essi, decide di assumere direttamente il potere eleggendo uno di loro, piuttosto che lasciare sul trono il minorenne Gisulfo II, il quale avrebbe ripetuto l’atto di sottomissione a Liutprando. Contro di loro, il Re decide di intervenire energicamente.

Gregorio, quindi, divenne duca in seguito ad una vera e propria campagna militare: i beneventani non affrontarono sul campo l’esercito nazionale, ma sta di fatto che Liutprando represse duramente i “ribelli” e annientò coloro che avevano tramato contro di lui. A dire il vero Paolo Diacono afferma che fu il popolo di Benevento a reprimere coloro che avevano tramato contro la vita di Gisulfo II ma è molto più probabile che la repressione ebbe luogo in seguito alla discesa del Re, il quale si trattiene nel Sud Italia per “sistemare le cose”, come afferma lo storico longobardo, ovvero per smantellare completamente il partito autonomista. Il verbo latino usato da Paolo Diacono per indicare l’atto di repressione della fazione nemica di Liutprando e di Gisulfo può infatti significare sia “uccidere” che “annientare”. Ma dato che Audelais era stato eletto dall’assemblea, e non aveva preso il potere per propria iniziativa, i seguaci del partito autonomista dovevano essere numerosi, da cui la necessità da parte di Liutprando di trattenersi il tempo necessario per “sistemare le cose” e garantire a Gregorio il governo del Ducato senza doversi preoccupare di “nemici interni”.

La nomina di Audelais e la successiva imposizione di Gregorio, a cui seguì la totale repressione del “partito autonomista” beneventano, non produssero contraccolpi dal punto di vista della stabilità politica, grazie alla complessità e capillarità del sistema di potere messo in piedi dai duchi beneventani negli anni precedenti. Tale sistema di potere si reggeva sull’esistenza di una oligarchia militare che, sebbene fosse sparsa sul vasto territorio del ducato, si relazionava alla corte ducale di Benevento in maniera dialettica, rivendicando una autonomia di azione politica che si concretizzava nelle numerose campagne militari guidate dal duca ma portate avanti dagli esponenti più importanti di questa oligarchia, i quali erano interessati all’acquisizione di nuove terre per continuare ad alimentare e rinsaldare la propria ricchezza e il proprio potere. Sebbene le città del meridione fossero governate da Gastaldi nominati dal Duca e a lui sottoposti gerarchicamente, tali personaggi, soprattutto se si fregiavano anche di altre “cariche pubbliche”, si presentano sempre molto autonomi e dotati di un potere e di una ricchezza personale tali da poter competere con il duca stesso, come vedremo soprattutto negli anni a venire. In sostanza il ducato era quindi retto da una oligarchia che si riconosceva nel Duca beneventano, ma a patto che egli riconoscesse a sua volta il potere degli oligarchi. Questa oligarchia, che si concretizzava nella Gairethinx, ovvero nell’assemblea dei guerrieri (letteralmente assemblea delle lance), era in ultima analisi la spina dorsale del Ducato e senza di essa la capitale Benevento non sarebbe mai riuscita a concentrare all’interno delle sue mura la ricchezza che derivava dal possesso di così vasti territori. Inoltre dagli inizi dell’VIII secolo la proprietà terriera, che era sinonimo di ricchezza, inizia ad essere donata ai monasteri sia dal duca stesso che da esponenti della nobiltà longobarda, per cui si assiste ad una ridefinizione e polarizzazione della ricchezza, che porta gli abati dei monasteri più importanti a gestire veri e propri imperi economici che diventeranno, di conseguenza, centri di potere politico, capaci di indirizzare l’azione politica della capitale Benevento, costringendo il Duca stesso a porre tali monasteri sotto il proprio controllo, mediante la nomina di abati e badesse legati alla propria famiglia.

Come riferito dal professore Enrico Cuozzo2, “il ducato beneventano, dotato di un sistema di istituzioni pubbliche efficaci, anche se semplici, non fu scosso dai cambiamenti dinastici dell’VIII secolo, perchè essi non riguardarono né le fonti del potere del duca, né le fortune dell’aristocrazia laica, che continuò a ricoprire le cariche palatine. Anche le strutture ecclesiastiche erano saldamente sotto il controllo del duca e del suo entourage. (…) Alla base del potere e della ricchezza del duca, così come delle fortune dell’aristocrazia e dei monasteri, vi era la titolarità della terra. Il suo status, pur conservando tracce del carattere privato ed individuale del dominio romano, risentiva, tuttavia, dell’originaria concezione longobarda del possesso collettivo. (…) Il possesso era legato più saldamente alla famiglia che all’individuo, aveva cioè una natura eminentemente familiare. Il duca aveva nella sua disponibilità tutti i beni del Sacro Palazzo di Benevento, tra i quali si distinguevano, seppur solo teoricamente, i suoi possessi privati, allodiali, dal patrimonio pubblico. Tali beni erano costituiti oltre che da terre coltivabili, da tutti i corsi d’acqua, dalla maggior parte dei monti, delle foreste, dei pascoli naturali. Lo stesso duca poteva disporre anche di tutti i redditi derivanti dal sistema tributario, che era parte importante degli ordinamenti del ducato. Il duca era il più grande titolare di beni fondiari, e manifestava il suo potere e la sua ricchezza facendo concessioni ai suoi fideles (senza per questo instaurare con essi un rapporto feudo-vassallatico), agli enti ecclesiastici, ai privati. L’originalità del ducato di Benevento, rispetto al resto dell’Italia longobarda, consistette nell’ampia autonomia politica del duca, ed in un particolare ordinamento del possesso fondiario: accanto ad un sistema curtense che, prevalente nelle zone interne e nei possessi del palatium, offriva una produzione crerealicola, coesistette una piccola e rigogliosa proprietà, soprattutto nelle zone costiere, legata al dinamismo delle città e del commercio, con una agricoltura basata sulle colture promiscue”.

In pratica il sistema politico ed economico del ducato beneventano aveva come suo perno centrale il Sacrum Palatium di Benevento, ovvero la sede del potere centrale ducale. I documenti hanno infatti validità se vergati all’interno del Palatium, da intendersi quindi come luogo in cui l’Autorità acquisisce un carattere di sacralità per cui ciò che viene sancito e deciso al suo interno è da recepirsi come inviolabile. Il sacro, in effetti, era sentito dalle popolazioni del periodo come qualcosa di benevolo e maligno allo stesso tempo: violare un patto sottoscritto all’interno del Sacrum Palatium significava andare contro tutto ciò che è sacro e quindi incorrere in punizioni “divine” che non tarderanno ad arrivare. Il Palatium, che era ubicato a Benevento nell’attuale Piazza Piano di Corte, non era dunque semplicemente la Corte del Duca, ma era il centro nevralgico del potere, al cui interno le decisioni e i documenti prodotti assumevano un carattere di sacra inviolabilità, ma al tempo stesso un luogo in cui l’autorità del Duca, il quale rappresenta l’intera collettività ed agisce in nome di essa, coesisteva con una oligarchia nobiliare, che basava la propria ricchezza sul possesso fondiario, che era indispensabile per mantenere in vita le funzioni essenziali del Palatium e che rivendicava l’autonomia politica rispetto al Regno di Pavia. Per questo motivo, ribadiamo, il progetto politico di unificazione nazionale portato avanti da Liutprando, che necessitava invece della fine dell’autonomia beneventana, si scontrò con le aspirazioni e le consuetudini dell’aristocrazia beneventana e con lo stesso sistema politico beneventano.

Abbiamo visto nel saggio precedente quanti fossero i funzionari della corte, definiti actionarii o actores del duca, quindi funzionari ducali, che avevano il compito di rappresentare l’autorità del duca nei territori periferici, di amministrare la giustizia, di reclutare gli uomini per l’esercito o per la sculca (compiti di polizia locale) e di riscuotere le tasse. In sostanza, dunque, il ducato di Benevento era suddiviso in circoscrizioni definite iudicarie, rette da Gastaldi, i quali possono essere definiti anche Actionarii. A loro volta tali circoscrizioni territoriali erano divise in territori più piccoli, retti da Sculdalsci (Sculdais) o da funzionari minori, a seconda della grandezza e densità di popolazione del centro abitato. Ma la stragrande maggioranza del territorio che componeva il Ducato non era urbanizzato, ed era quindi diviso non solo in città, villaggi (pago, vico), borghi rurali, ma anche e soprattutto in unità territoriali di diversa grandezza ed importanza.

Innanzitutto esisteva il Gualdo, da intendersi come una vasta circoscrizione territoriale a sé stante, composta da ampie zone incolte, pascoli, boschi, fiumi, laghi, corsi d’acqua, che potevano essere utlizzati a fini che oggi potremmo definire “economici”. Il pascolo o la pesca, l’approvvigionamento di legna, pietra o minerali in questi gualdi era consentito in esclusiva al proprietario e ai suoi servi, come ben si comprende nei vari diplomi a nostra disposizione. La maggior parte dei gualdi citati nei diplomi appartiene al Duca stesso, ma molti altri gualdi vengono concessi ai monasteri, ai quali si dona non tanto il territorio quando la possibilità di sfruttarne le risorse naturali.

Dalla frantumazione dei galdi, nel corso degli anni, nacque una nuova entità fondiaria, ovvero il Gaio, un vasto territorio ben delimitato, quasi certamente da confini naturali, al cui interno si trovavano coltivazioni intensive e di un certo pregio, ovvero riservati alla corte ducale, ma l maggior parte del terreno era lasciato incolto, adibito al pascolo o coperto da fitti boschi che venivano usati come fonte di legnami, anche particolari. Ad ogni modo tale suddivisione è senza dubbio successiva al periodo di insediamento di Gregorio, per cui la proprietà ducale di natura fondiaria che comprendeva vaste zone incolte era ancora raggruppata in vastissimi Gualdi.

Ma la ricchezza della corte ducale di Benevento si basava su un’unita fiscale ben definita e meno estesa dei gualdi e dei gaii, ovvero le Curtes, al cui interno vi erano soprattutto attività produttive rurali, definite Mansi, che erano condotte in maniera servile o affittuaria e che costituivano la fonte principale della ricchezza.

Ogni Curtis era divisa in due parti: una parte gestita in maniera esclusiva ed autonoma da parte del proprietario, in questo caso del Duca, e quindi affidata ad un tenutario (definita Pars Dominica), e una parte suddivisa in tante piccole unità fondiarie definite appunto Mansi o Sortes, che venivano affidate a servi o ad affittuari che le conducevano e che non le potevano abbandonare (Pars Massaricia). Oltre a queste aree produttive, la curtis longobarda beneventana comprendeva anche delle “pertinentiae”, ovvero delle zone di uso pubblico gratuito che servivano a tutti gli abitanti della curtis per approvvigionarsi di legna, o per andare a pesca o a caccia, o per portare le mandrie al pascolo.

Il proprietario deve sostenere tutte le spese per mantenere i servi, e quando questi oneri diventano troppo pesanti, spesso il proprietario decide di donare loro la libertà, al fine di instaurare con i suoi lavoratori un rapporto basato sull’affitto delle terra e non più su rapporti servili.

Non a caso, una della particolarità delle curtis beneventane, che abbiamo desunto dall’analisi dei documenti riguardanti queste proprietà fondiarie, era l’uso del termine Condoma, che stava a designare i lavoratori dei mansi che vivevano in condizione servile (e talvolta anche per indicare gli affittuari). Tale definizione appare già nelle lettere di Gregorio Magno ad indicare il capo famiglia di un gruppo di contadini che sono in sostanza conduttori di un mansio, a prescindere dalla loro condizione servile o affittuaria. In particolare il censimento dei Condomas serviva a capire in quanti nuclei familiari fosse divisa la parte massaricia della curtis, ma col passar del tempo, lentamente i contadini abbandonarono la propria condizione servile, anche se solo giuridicamente, e iniziarono a diventare affittuari e conduttori a contratto, per cui il censimento dei nuclei familiari massaricii avveniva col conteggio dei “fuochi” ovvero delle abitazioni che vi si trovavano. Nel periodo di Gregorio, ad ogni modo, era ancora ampio il numero di contadini che lavoravano in condizione servile e che per questo assicuravano alla corte centrale di Benevento, definita come detto Sacrum Palatium, di disporre di una ricchezza senza eguali, la quale però aveva bisogno di una complessa infrastruttura burocratica, fatta di tanti actionarii o actores del duca che dovevano gestire questi enormi possedimenti fondiari.

Per questi motivi, il ducato di Benevento rimase saldo nelle sua fondamenta anche in questo periodo di instabilità politica, l’unico durante il quale a governare la città venne imposto un duca scelto direttamente dal Re in netta contrapposizione alle decisioni dell’assemblea delle lance di Benevento. Le “purghe” di Liutprando, ovvero la repressione del movimento autonomista, dovettero costare la vita a diversi funzionari ducali, che quindi andavano sostituiti, preferibilmente con elementi fedeli alla corona pavese, per cui si capisce la necessità di Liutprando di dover trattenersi a Benevento per “sistemare le cose”, una necessità che lo spinse a lasciare Ravenna, da poco conquistata, senza il grosso dell’esercito e dando così la possibilità ai bizantini di riprenderla agilmente.

Non sappiamo se l’atto di sottomissione al Re Liutprando da parte del Duca di Benevento Romualdo II ebbe dei risvolti prettamente economici e monetari. Come sappiamo ogni duca del nord Italia aveva ceduto metà delle sue ricchezze al Re e quindi in ogni ducato settentrionale esistevano curtes regie, ovvero ampi territori di proprietà del Re, mentre invece a Benevento non sono mai esistite proprietà regie. In base alle nostre conoscenze, nella sottomissione a Liutprando non vi era nessuna clausola di natura economica, come ad esempio il versamento di qualche tributo annuale, ma forse ve ne erano altre simili, o che andavano in qualche modo a compromettere l’autonomia dei beneventani, da cui il loro disperato tentativo di sottrarsi dal controllo regio mediante la nomina di un duca che fosse espressione diretta della nobiltà palatina.

Ad ogni modo, come detto, Liutprando riuscirà a “sistemare le cose” e ripartirà per il Nord Italia, portando con sé il minorenne Gisulfo II, adottandolo come figlio e mettendo in tal modo una seria ipoteca sul futuro dei longobardi beneventani, come vedremo.

In tal modo, infatti, Gisulfo sarebbe cresciuto alla corte di Liutprando, così che lo stesso re avrebbe potuto farne un suo diretto strumento di controllo, pur mantenendo intatta la dinastia che da lungo tempo regnava nel ducato. Di fatto Gregorio3assunse il ducato con lo scopo di garantirne la stabilità politica ed istituzionale, anche il matrimonio con Giselperga deve essere inquadrato nella prospettiva del mantenimento sociale fino all’avvenuta maturità di Gisulfo.

Tutto ciò avviene nel 732 e sappiamo per certo che ciò fu il risultato, in un certo senso estremo, di una chiusura dei vari scenari militari che il conflitto inconoclasta aveva suscitato. Il conflitto aveva polarizzato gli interessi di tutte le entità politiche della penisola, sopratutto di quelle entità che si dibattevano nella continua lotta per l’autonomia. In questo quadro, come già detto, un ipotetico blocco romano-spoletino-beneventano avrebbe rappresentato un serio ostacolo al disegno egemonico di Liutprando.4Dobbiamo ricordare che, mentre Liutprando era impegnato nello scontro con Audelahis, nel 731 l’esercito Bizantino assaltava e riconquistava Ravenna.

“Una terza volta poi, mentre Ildebrando nipote del re e Peredeo duca di Vicenza si mantenevano in Ravenna, in un improvviso assalto di Veneti, Ildebrando venne fatto prigioniero e Peredeo, combattendo valorosamente, periva sul campo. Dopo di ciò i Romani, tronfi della loro solita superbia, riunite le loro forze e datosi un comandante nella persona di Agatone, duca di Perugia , andarono per prendere Bologna dove in quel momento avevano il campo Walcari, Peredeo e Rotari: e furono proprio questi che piombando sui Romani, ne fecero strage costringendo i superstiti alla fuga.”5

E’ probabile che “la solita superbia” sia riferita e contestualizzata nella lotta iconoclasta portata avanti in quegli stessi anni. Tuttavia dobbiamo notare che in questo caso non si trattò dell’esercito imperiale , ma bensì dei Veneti, ossia i Bizantini della fascia costiera di Aquileia. Da questo punto di vista il dominio Bizantino, ridotto ai minimi storici, aveva incominciato di fatto ad assumere delle posizioni sempre più autonome da Costantinopoli. A tal proposito siamo a conoscenza di alcune lettere che Papa Gregorio III aveva scritto all’allora Doge di Venezia, Orso, invitando sia lui che l’esarca Eutechio, riparato appunto in quella città dopo la presa di Ravenna, a marciare contro i Longobardi e riprendersi la città. Il fatto che il papa scriva direttamente al Doge dimostra come di fatto il territorio veneziano stesse ormai prendendo le mosse di un vero e proprio stato territoriale. L’episodio di per sé rimane comunque oscuro, non sappiamo come si mosse l’esercito bizantino, molto probabilmente furono aiutati dagli stessi cittadini di Ravenna. Inoltre l’attaccò ebbe luogo in un momento assolutamente favorevole ai Veneti, in quanto l’esercito nazionale dei Longobardi era effettivamente diviso e lo stesso re Liutprando si trovava in quel momento a sud: era una occasione da non perdere. La divisione dell’esercito ci viene riportata dallo steso Diacono, il quale nomina appunto i tre nobili che si trovano in quel momento a Bologna, e non parla di nessuna fuga di questi da Ravenna, perciò è lecito pensare che effettivamente una parte dell’esercito fosse a Bologna e un altra a Ravenna, e che nessuno si aspettasse un attacco massiccio da parte dei Veneti. Appare ancora più sofisticata la politica di Roma che cercò di costruire, senza successo, una vera e propria coalizione anti-Liutprando, mantenendo effettivamente i rapporti non solo con i bizantini ma anche con i Longobardi che non volevano sottostare a Pavia, come nel caso del duca Transamundo esule in Roma.

Successivamente l’esercito veneto sembrò autoproclamare Agatone duca di Perugia di cui sappiamo ancora meno, tuttavia l’esercito in questione doveva essere consistente e proprio a questo proposito la strategia dei duchi a Bologna fu probabilmente quella di un vero e proprio attacco lampo che infranse la proverbiale superbia dei Romani. In questo frangente vedrà non solo la morte il valoroso duca di Vicenza Peredeo, ma il futuro re Ildebrando verrà cattura, e specifichiamo già qui che non sappiamo i dettagli del suo futuro rilasciò, che dovette avvenire tra il 731 e il 737.

Ad ogni modo dobbiamo evidenziare che nonostante la perdita di Ravenna, il consolidamento delle conquiste di Liutprando riuscì perfettamente, e di fatto la perdita della capitale dell’esarcato non intaccò minimamente il suo potere, d’altronde il re aveva tra le mani il futuro duca di Benevento Gisulfo II, quindi poteva considerare il suo dominio completamente saldo.

“Ma proprio in questo momento cadde ammalato; sembrava anzi che stesse per morire; i Longobardi, riunitisi fuori dalla mura della città, nella chiesa della santa madre di Dio chiamata “Alle pertiche”, elessero re suo nipote Ildebrando. Ma, sulla lancia che gli stavano consegnando secondo il rituale, venne a posarsi un cuculo: portento apparso a significare, secondo alcuni saggi, che quel principato sarebbe stato inutile.”6

Liutprando si ammalò e non sappiamo bene quale malattia lo colpì nello specifico, ma è evidente che fu una malattia molto grave, da costringere i nobili Longobardi a correre ai ripari. Liutprando non aveva eredi maschi e il suo erede diretto non poteva che essere Ildebrando. Sono presenti tutti gli aspetti simbolici che arricchiscono la nostra conoscenza dei rituali Longobardi e delle loro credenze. La lancia arma sacra di Wotan nel mondo germanico-scandinavo e successivamente simbolo dell’arcangelo Michele, era il simbolo perfetto della regalità Longobarda. In oltre l’atto della donazione conferiva una sorta di legittimità collettiva, in quanto erano gli stessi nobili che la donavano al futuro re. Nonostante tali elementi fossero di fatto simbolici, testimoniavano il fortissimo legame con la tradizione che il ceto dirigente Longobardo non era assolutamente disposto a dimenticare, anzi esso venire ripreso in tutte le circostanze e costituiva l’ossatura cultura della gens Longobarda. Ancora una volta troviamo come presenza simbolica un uccello. Che gli uccelli siano una presenza totemica ampiamente rappresentata nel mondo germanico-scandinavo è cose assodata e tutt’ora certa, e tale rappresentazione può andare dei due corvi di Wotan/Odino all’aquila appollaiata sulle cime di Yiggdrasil , l’albero del mondo. Nell’epopea Longobarda gli uccelli compaiono spesso in particolare le colombe come abbiamo visto nei precedenti saggi. Che la cultura Longobarda fosse carica di simbolismo e di una retorica ancestrale, accuratamente fusa e mescolata con il patrimonio culturale e simbolico cattolico, non poteva che produrre negli astanti alla cerimonia una certa apprensione. Infatti il cuculo viene spesso associato ad un atteggiamento parassitario e all’incapacità di agire, chiaramente ciò non ha nulla a che fare con la moderna ornitologia, ma deve essere inquadrato nel contesto simbolico e superstizioso dell’VIII secolo.

Sembrerebbe che Ildebrando non godesse per nulla di una buona fama presso i suoi contemporanei e di fatto noi non sappiamo se l’episodio del cuculo sia effettivamente accaduto o se ci troviamo di fronte all’ennesimo aneddoto favolistico di Paolo Diacono.

Sta di fatto che la reazione di Liutprando non fu affatto entusiasta. Benchè a letto moribondo, il re di Pavia non era di certo intenzionato a morire in quel modo, tuttavia la ragion di stato dovette prendere ancora una volta il sopravvento sui suoi sentimenti. Come già detto, Liutprando non aveva eredi diretti, una sua morte improvvisa avrebbe gettato nel caos il regno e praticamente distrutto tutto quello che stava costruendo. Il re diede l’approvazione alla cerimonia, e di fatto Ildeprando venne associato al trono nel 737.

1 Paolo Diacono,Storia dei Longobardi ,Libro IV , 55

2Si rimanda a Enrico Cuozzo, Potere e ricchezza del duca-principe di Benevento, in I longobardi dei ducati di Spoleto e Benevento

3 Sappiamo che fino a questo momento, Gregorio aveva mantenuto il Ducato di Chiusi, J. Jarnut ,Storia dei Longobardi

4 Questa teoria è riporta da Bertolini nella sua opera , I Papi e le relazioni ecc, p 48

5 Paolo Diacono,Storia dei Longobardi ,Libro IV , 54

6 Paolo Diacono,Storia dei Longobardi, Libro IV , 55, vv 17-24